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 2020  novembre 30 Lunedì calendario

Il primo delitto di mafia di Riina

L’ultimo mistero di Riina riguarda il suo primo delitto di mafia, un testimone bambino e un pentito spavaldo. Affiorò quasi per caso, al termine di un interrogatorio su altre vicende. E di nuovo per caso riaffiora nel giorno in cui morì Maradona. Un magistrato mi manda un lungo messaggio che comincia così: «Questa è una storia vera, accaduta più sessant’anni fa, ma da pochi diventata un’indagine». La scintilla che l’ha riaccesa è la curiosità, la stessa che, scrive il giudice: «Diego aveva negli occhi tutte le volte che lo vedevo».
Una sera di novembre del 2012 si conclude l’ennesimo incontro con un collaboratore di giustizia, uno di primo livello, coinvolto in alcune delle azioni più clamorose di Cosa Nostra e molto vicino a quello che è passato alla storia come “il capo dei capi”. A microfoni spenti, il magistrato insegue la scia della propria curiosità e gli domanda: «Ma è vero che lei è stato combinato, affiliato alla mafia proprio da lui, da Totò Riina?». L’altro s’inorgoglisce: «Certo. Fu lui a cercarmi quando seppe la mia storia». «A quale storia si riferisce?».
Il pentito, siciliano d’origine, negli anni 80 era emigrato con i genitori a Torino dove aveva iniziato a delinquere: furti, rapine, droga, basso profilo. Un giorno arrivarono in città due picciotti di Mazara del Vallo, mandati per regolare un conto in sospeso. Gli chiesero di procurare due pistole e un’auto, pulite. Dopo una settimana restituirono tutto, ringraziarono e ripartirono: non erano riusciti, il bersaglio era risultato, almeno per loro, inavvicinabile. «Nel salutarli chiesi il nome del tizio. Il giorno dopo andai e l’ammazzai. Senza incarico né ricompensa. Solo per dimostrare che io potevo farlo». Riina lo venne a sapere e, anche lui s’incuriosì, a dir poco. Mandò a chiamare quel suo simile che ragionava con la pistola prima che con la testa, lo combinò e gli affidò un mandamento. «Entrammo così in confidenza che una sera mi volle raccontare il suo primo omicidio di mafia. Disse che era successo alla fine degli anni Cinquanta, in un paese vicino a Palermo, a settembre, durante la festa del Crocifisso. Lui e il suo padrino, insieme: doveva provare il suo valore e l’aveva fatto». Il magistrato gli chiese se questo racconto fosse stato verbalizzato in precedenza: «Mai». Di ritorno a Palermo chiamò il maresciallo di quel piccolo paese, duemila abitanti. Gli chiese di fare una ricerca basata su quei pochi dati. Quello si presentò di persona due giorni dopo con un appunto manoscritto: «F.G. ucciso il 15 settembre 1957, da due uomini a volto scoperto». Il magistrato controllò: a quel tempo Riina, 27 anni, era appena uscito di prigione. Gli avevano ridotto la pena, dopo la condanna a dodici anni per aver ucciso un coetaneo in una rissa. Era agli arresti domiciliari, ma uno come lui poteva certamente aver violato le consegne. Si fece portare l’ingiallito fascicolo della corte d’assise. Tutto tornava, con un particolare in più: esisteva un testimone oculare. Di undici anni, all’epoca dei fatti. Nel suo candore, il bambino aveva parlato con i carabinieri. Aveva detto del rivolo di sangue che era corso fino ai suoi piedi, di come aveva sollevato lo sguardo e visto quegli uomini, due, in faccia. Mentre, dietro la porta della caserma, lui raccontava, un cronista era corso a casa sua. Aveva chiesto una foto alla madre per metterla sul giornale. Lei gli aveva dato quella della comunione, perché aveva «il vestito buono». Il giorno dopo era uscita, cambiando il suo destino. Il bambino era stato spedito da parenti a Catania. Da lì ad altri, nel Nord Europa. L’avevano ribattezzato e l’avevano accompagnato lungo un altro, imprevisto percorso. Non era mai più tornato. Si era sposato. Aveva un lavoro, una casa e, ogni notte, lo stesso incubo: due figure ormai indistinte e un cadavere.
L’Interpol suonò alla sua porta dopo 55 anni, curiosamente in un giorno che era di festa per la città in cui viveva. Fu ricondotto in Sicilia, davanti al magistrato che aveva riaperto il caso. Lo fece per dovere civico e per trovare pace nei sogni, ma non poteva ricordare due volti dopo 55 anni. Non guardò le fotografie, non seppe mai chi avrebbe potuto accusare. L’indagine proseguì senza trovare altri «riscontri individualizzanti»: ci sarebbe voluta, almeno, la parola di un secondo collaboratore, altrettanto credibile e informato. Fu chiesta l’archiviazione senza arrivare al processo. Il magistrato non poté interrogare Riina. Scrive: «Forse avrebbe negato e si sarebbe messo a ridere, come spesso faceva, oppure chissà, avrebbe confessato questo, dei suoi tanti segreti». Fece invece un’altra cosa: morì.
Perché mi ha raccontato questa storia, dottore? «Perché è anche una storia di speranza, la speranza di non essere travolti da una serie interminabile di ciechi egoismi, disumane incoerenze, indelebili oscenità». E di sapere le verità, anche quando restano ufficialmente misteri.