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 2020  novembre 30 Lunedì calendario

Intervista a Giuseppe Berta

Nei giorni scorsi Francesco Giavazzi sul Corriere ha aperto una riflessione sulla «voce che manca», quella dell’imprenditoria italiana grande assente nei progetti del governo per far ripartire la nostra economia. «La strada prescelta – ha scritto – è tutta centrata sullo Stato e purtroppo è facile prevedere che essa ci porterà a tanto debito e poca crescita». Il capitale industriale è dunque destinato ad essere mangiato dal capitalismo politico, anche nella versione italiana? Sullo spunto di Giavazzi abbiamo chiesto il giudizio dello storico dell’economia Giuseppe Berta, cercando di riavvolgere il nastro dell’Italia manifatturiera per collocarne l’evoluzione in un quadro internazionale dove i grandi soggetti come Usa, Cina ed Europa stanno riposizionandosi.
Cominciamo da un primo giudizio di Giavazzi: è stata davvero l’imprenditoria italiana in passato a fare le fortune del nostro Paese?
«In linea di massima sono d’accordo. Però nella grande avventura imprenditoriale simboleggiata da capitani d’industria come Zanussi, Fumagalli, Merloni citati da Giavazzi c’è una sorta di dark side. L’elemento del dinamismo convive con il ripiegamento, sono quasi inscindibili. È una costante che ritrovo in quasi tutta la storia industriale italiana. Einaudi a suo tempo aveva sempre sottolineato la spinta innovativa del privato ma francamente non so se buoni e cattivi, innovatori e restauratori siano figure distinte tra loro. O invece quasi due facce della stessa medaglia italiana».
Però di fronte a uno Stato che si muoveva per occupare potere i capitani d’industria intravidero un’idea che calzava per l’Italia, la scelta di un modello di specializzazione produttiva.
«D’accordo. I grandi solisti però non durano a lungo, consumano forze ed energie e a un certo punto vengono riafferrati dal gruppo, normalizzati. Non vale solo per il privato. Penso a una figura come Beneduce, parimenti dinamico e visionario ma poi, dopo la malattia che ne compromise l’azione, inevitabilmente ricondotto nell’alveo dell’istituzione. È una sorta di maledizione italiana che tocca sia i protagonisti colti che quelli spontanei».
Comunque si può dire che il liberismo in Italia ha ballato una sola stagione, quella degli anni ‘50. Poi non ne abbiamo più visto.
«Penso che un liberismo mediterraneo non sia mai veramente esistito, siamo noi a riportare le polemiche dell’oggi a denominazioni di comodo. Il Paese per un certo tratto ha attinto alla matrice della terza Italia, ha conquistato leadership, come ad esempio negli elettrodomestici negli anni ‘60, ma poi ha disperso queste capacità. E non credo francamente che si possa dare la colpa allo statalismo, quanto a un limite intrinseco del capitalismo privato».
Con le privatizzazioni degli anni ‘90 però si pensò di far ripartire un ciclo legato al mercato e di pari passo di creare soggetti privati dotati di una taglia decisamente superiore.
«Così come sono state concepite le privatizzazioni non potevano funzionare, avremmo dovuto individuare vere istituzioni del mercato e non solo delle deboli authority. Guardi il caso Autostrade, laddove il capitalismo spontaneo del Nordest si travasa in qualcosa di più grande. Ma non trova rapporti definiti, spazi, competenze, responsabilità e l’esito è quello tremendo che cogliamo oggi nelle cronache».
Durante la crisi 2008-15 l’industria privata italiana sorprende tutti però dando vita a un ciclo di esportazioni inatteso, le multinazionali tascabili diventano protagoniste. E ancora oggi nell’anno della pandemia l’export regge nel confronto 2020 su 2019. Il tutto nella sostanziale assenza dello Stato.
«Possiamo dire così: quando gli imprenditori italiani si trovano davanti a regole chiare di ingaggio, a mercati stabili sanno prendersi le loro responsabilità, sanno stare nei grandi flussi internazionali, sono a loro agio nel grande gioco economico».
Niente è per sempre però e infatti oggi ci troviamo di fronte a due grandi discontinuità, quella del dopo pandemia e del new green deal. E i privati sembrano troppo piccoli per affrontare queste curve. Tornano al centro gli Stati che possono spendere e indebitarsi. Il debito sovrano fase estrema del capitalismo, come recita il titolo del libro di Paolo Perulli?
«Insieme alle dimensioni dei capitali mi sembra decisiva la nuova geografia del capitalismo. Sono gli Stati e le big tech gli unici che possono giocare le nuove partite. E francamente l’Europa mi pare fuori campo».
Una considerazione che vale quindi non solo per l’Italia anche per quel capitalismo tedesco che veneriamo?
«Cina e Usa mi pare che possano prendere una spinta dalla vicenda Covid, noi europei non ci siamo. Non abbiamo piattaforme tech, non ci sono i Bezos o i Jack Ma e nemmeno i grandi conflitti tra questi personaggi e i rispettivi apparati statuali. Gli europei, compresi i tedeschi, si stanno dislocando su un altro asse».
Siamo più avanti però nell’agenda della sostenibilità.
«Sì, abbiamo scelto un’altra priorità che non interessava l’America di Trump e non interessa ai cinesi. Che giocano il loro duello su altri campi, in primis la tecnologia».
Stati più tecnologia è la formula della supremazia del capitalismo politico, come sostiene un altro libro, quello di Alessandro Aresu.
«Sì, ci sono molte elaborazioni che vanno in quella direzione. Penso ad esempio alle differenti ricerche di Matthew C.Klein e di Michael Pettis (Trade Wars Are Class Wars, Yale University Press 2020) e di Branko Milanovic (Capitalismo contro capitalismo, Laterza 2020), che segnalano uno sventagliamento dei modelli di capitalismo e la difficoltà di trovare una nuova regolazione. Klein e Pettis sostengono che il capitalismo deve mettere ordine al suo interno e riconoscere spazio e responsabilità alla componente del lavoro. Milanovic indica invece una pluralità di differenti soluzioni e combinazioni all’interno del capitalismo, mostrando una varietà di modelli che tendono non solo a divergere ma a confliggere».
Ma possiamo concludere che il capitalismo politico mangia quello industriale?
«L’industria è già ridotta a un ruolo minoritario. I big tech, le imprese formate da grandi piattaforme tecnologiche, sono forse industria? No, ha vinto l’immateriale, le piattaforme non processano beni in primo luogo; erogano soprattutto servizi. I politici americani vogliono affrontare questo problema con le formule dell’antitrust, non so quanto adatte. Ma gli Stati andranno nella direzione di mettere a punto nuove forme di regolazione. Gli Usa, alla fine, è probabile che riescano a suddividere le big tech e Pechino ha già tagliato le unghie a Ma sancendo che il Partito comanda».
In Italia si può dire che il capitalismo politico abbia le sembianze di una Cassa Depositi e Prestiti onnipresente, dai gelati Sammontana alla rete unica delle telecomunicazioni, dalle costruzioni ai sistemi di pagamento?
«È una forma di capitalismo che in parte riflette l’ombra della politica, chiamato a occuparsi di tutto, in chiave di riparazione e consenso. È pervaso da un’anima che tende a superare i vincoli di mercato, facendosi forte di un mandato politico. Ma se in passato in Italia c’erano strutture che rendevano possibile l’esercizio di questa delega, oggi non ne vedo. Per cui Cdp rischia, alla fin fine, di prendere su di sé la responsabilità politica delle scelte di questa fase».