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 2020  novembre 30 Lunedì calendario

Intervista a Domenico Starnone

Ogni tanto, gli occhi gli si restringono, le braccia si serrano. Durante l’intera chiacchierata, Domenico Starnone mi guarderà con una certa apprensione. Il concetto d’intervista-ritratto lo convince poco. Con garbo, domanda «ma lei vuole fare una biografia?», oppure «mi sta facendo la psicanalisi?». Sono partita male, gli ho detto che, dopo Via Gemito, con cui vince lo Strega nel 2001 e che Einaudi ha appena ripubblicato, se pensi a lui, pensi a quel bimbo letterario che gli è perfettamente sovrapponibile, in quanto nato a Napoli il 15 febbraio 1943, figlio di pittore costretto a fare il ferroviere e di una madre bellissima e dolente, mancata a 44 anni. E che, dopo, è fatale chiedersi se ogni sua storia non sia un po’ la sua storia. Anche perché, spesso, i suoi personaggi sono, come lui, professori diventati scrittori e hanno un primo matrimonio precoce che collassa nei libertari anni 70, così com’è in Confidenza o in Lacci, appena portato al cinema da Daniele Luchetti. Nessuno come Starnone ha raccontato di famiglie che si disgregano e di uomini inadeguati a essere padri e mariti.
A lei è mai capitato, come a Emmanuel Carrère, che una ex si riconoscesse in un romanzo e volesse denunciarla?
«A me no. Io penso che chi scrive deve essere imprudente e impudente, se no, non viene fuori niente. Ma questo non ha a che fare col raccontare i fatti propri. È vero: in Lacci c’è una crisi coniugale, come nella mia esperienza, ma non è la storia di Aldo che s’innamora di Lidia e lascia moglie e figli, è la storia dei danni che fa una falsa riconciliazione, di un letale ritorno a casa, che nel mio vissuto non c’è stato. Poi, come consigliava Italo Svevo, perché una storia funzioni, il primo a doverci credere è l’autore, per cui, io uso dei punti fissi del mio percorso: il marito, il professore, il primo matrimonio, ma il processo di reinvenzione è fondamentale se il racconto vuole significare più di quanto hai vissuto».
Com’è stata l’infanzia vera in via Gemito?
«Sono nato quando i miei genitori erano sfollati fuori città perché su Napoli infuriava la guerra più spaventosa, ma quello che so è integralmente filtrato attraverso il racconto epico di mio padre, protagonista assoluto, che ingigantisce i fatti, parte col calesse per cercare il medico che mi farà nascere e offre cifre enormi a chi lo aiuta, mentre la partoriente resta nello sfondo… Come vede, anche il racconto biografico ha componenti letterarie. La memoria, più che un imbroglio, è la prima forma di racconto e Via Gemito è orchestrato attorno a un tema essenziale per la letteratura: raccontare bugie per cercare la verità».
Quel bambino che il padre voleva spavaldo e che si sentiva invece smarrito, non all’altezza delle aspettative, è bugia o verità?
«Sono stato un bambino timidissimo e spaventato dal padre. Quest’uomo ci metteva poco a perdere la pazienza, però non se la prendeva mai con me, ma sempre con mia madre. Poi, i momenti di violenza si moltiplicano nella memoria. Quelli rigorosamente accertati erano pochi, ma mi sono sembrati terribili».
E il suo senso di colpa verso sua madre è bugia o verità?
«È complicato da spiegare. Nella paura verso mio padre c’era una sovrastima, come se lui avesse il potere di trasformare le cose che gridava a mia madre nei miei stessi pensieri di bambino, come se a urlarle fossi anche io. C’era l’identificazione col padre e, tuttavia, il bisogno forte di schierarsi con la madre. Quest’ultima cosa non è mai accaduta».
Lei ha tre figli, ormai quattro nipoti. Che papà crede di essere stato?
«Non credo un buon padre. Sono stato uguale a quello di Via Gemito. Non nell’aggressività, ma nella dominanza di una passione. Per lui, era la pittura, per me lo scrivere. Scrivere mi piaceva quanto insegnare e insegnare quanto scrivere. Forse, avere un buon rapporto coi figli significa non distrarsi facilmente e io sono stato un uomo facilmente distratto dalla piacevolezza del suo lavoro».
È stato anche un marito distratto dalla piacevolezza del suo lavoro?
«Questo dovrebbe chiederlo a mia moglie».
Chiedo a lei un piccolo esame di coscienza.
«Sono, in effetti, un marito molto preso da cose da fare a cui attribuisco importanza».
Però con la sua seconda consorte, la traduttrice Anita Raja, sta da oltre 40 anni.
«Si dura se si hanno un legame forte, autoironia e interessi in comune. Questo matrimonio è più complesso e ricco del primo perché è molto fondato sul divertimento reciproco».

Se questo divertimento fosse una scena?
«La scriverei così: uno dei due dice una sola parola con toni melodrammatici. Una parola indecifrabile per l’esterno e che non può in alcun modo costituire una storia. E l’altro, dopo quella parola, ride».
E se quella parola fosse «Elena Ferrante»? Si narra che ci siate voi due, o uno di voi, dietro lo pseudonimo della scrittrice.
«Allora alluderebbe a una storia banale, piuttosto consumata, che un tempo, mi avrebbe infastidito, perché avevo l’impressione che mi togliesse qualcosa. Ma ormai, vivo la questione come un gioco a cui sono più o meno costretti i giornali».
Di cosa sono fallite le coppie della sua generazione?
«I nostri genitori sono stati giovani in epoca fascista e tutto quello che accade dopo è il tentativo da parte nostra di rovesciare l’esperienza soffocante di famiglia fondata sul patriarca che ha sempre l’ultima parola, che alla moglie civettuola che si è messa due pettini nei capelli può gridare, al culmine di un litigio, la misteriosa parola “vanesia”, a cui attribuisco la mia passione per la letteratura: aveva un suono estremamente dispregiativo, ma non sapevo che significasse. Pensi cos’è far esplodere la parola vanesia in urla tutte in napoletano…».
Spesso le coppie che racconta soffrono della competizione fra i due, con donne che vogliono farsi largo, avere voce. Lei questa competizione quando l’ha vissuta o schivata?
«Era nei fatti: noi ragazzi, fino a metà degli anni 60, siamo cresciuti con l’idea che eravamo il centro dell’autorità, che nei musei spiegavamo alla fidanzata quanto era meraviglioso un quadro e lei ascoltava a bocca aperta. Il racconto di come questa cosa viene smontata, un po’, l’ho fatto in Eccessi di zelo, in Denti».
Lei come si è affrancato da quel modello?
«In modo traumatico. I miei si erano sposati per stare insieme per l’eternità, la legge scritta e no era quella. E quella famiglia, ai miei occhi, era da non riprodurre. Poi, mi sono fidanzato nel ‘62 e sposato nel ‘66. Il primo dei nostri due figli è nato nel ‘68. Mi sono trovato in un ingranaggio in cui riproducevo la stessa famiglia, anche se in modo più moderno, con gente che legge fino alle tre di notte, ma il congegno era uguale. E però i tempi cambiavano, quindi, nel ’77, c’è stata una rottura dolorosa: allora, col divorzio appena introdotto, non erano cose su cui potevi cadere senza spezzarti le ossa».
In un libro, ha scritto «non sarai mai quello che vuoi ma quello capita». Essere scrittore le è capitato o l’ha voluto?
«Nella mia storia non esiste neanche un momento in cui scrivo qualcosa, cerco un editore, faccio la nota trafila. Da ragazzo, volevo fare lo scrittore, ma già intorno ai 22 anni, mi ero voluto considerare privo di talento. Era successo dopo aver scritto un lungo romanzo su un quadernetto, un pretenzioso scontro fra padre e figlio. Ero sposato da poco, vivevo di lezioni private, mi sbrigai a laurearmi, accantonai l’idea di scrivere e andai a insegnare. Poi cominciai, occasionalmente a fine anni 70, a lavorare per Il Manifesto. Dopodiché, trasformo una rubrica in una specie di diario da prof. Il suo successo porta il giornale a farne un libro e questo produce eventi a catena. Silvio Orlando mi cerca per portare Ex Cattedra a teatro e sono io a scrivere l’adattamento. Daniele Luchetti ne fa un film, La Scuola, che scrivo io con Rulli e Petraglia e, dato il successo, parte una carriera da sceneggiatore. Di passaggio in passaggio, quello che capitava è coinciso con quello che volevo. Peccato solo che, a un certo punto, ho dovuto smettere d’insegnare».
Che pensa della didattica a distanza?
«La scuola non andrebbe mai chiusa, poi, il tema sarebbe capire cosa nelle scuole si fa. Tuttavia, il Covid c’è e ci sono problemi che scavalcano tutti gli altri e il primo in assoluto è tenersi in vita».
Quando ha sentito la «sindrome del corpo sfiduciato» sui cui ruota «Spavento»?
«Quello è un libro a cui tengo perché parla di morte. La morte di mia madre a 44 anni è stata traumatica. Ha avuto una trasformazione fisica intollerabile e la sua scomparsa ha scardinato tutta la famiglia. Io, tutti gli anni seguiti ai miei 44 li ho vissuti come una colpa: ancora faccio un rapido calcolo e mi dico che ne ho rubati 33. Da bambini, morire è come quando si gioca ai cowboy, ci si stende per terra e si è morti. Invece, la scoperta della mortalità coincide con la perdita di fiducia nel corpo».
In pratica, le è venuta l’ipocondria?
«Se vuole, ma la parola mi sta stretta. La verità è che la vita mi piaceva molto e la concretezza della morte mi ha fatto sentire a rischio la gioia di vivere. Poi, più insegnare e scrivere mi riempivano e più quel pieno rendeva meno preoccupante il vuoto della sparizione».
Il pieno è pure l’idea di lasciar traccia di sé?
«Lasciare traccia oggi non conta nulla».
Perché ride?
«Perché la morte di uno scrittore è la sua cancellazione dal mercato e quindi la cancellazione della sua memoria».
Allora, che cosa conta per uno scrittore?
«Augurarsi di non aver sciupato la propria esperienza».