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 2020  novembre 29 Domenica calendario

Lo dicono i numeri: il 2020 è esplosivo

Nella storia americana ci sono cicli che sfociano ogni 50 anni in violenza sociale: l’ultimo era stato negli anni Settanta. Quindi questo 2020, culmine di un decennio di tensioni crescenti, per gli Stati Uniti potrebbe rappresentare non la fine, ma l’inizio di un periodo molto turbolento. La previsione di Peter Turchin, uno studioso che parla della Guerra di Secessione di metà Ottocento come della «prima» Guerra civile americana, sottintendendo che ne stia per arrivare un’altra, non mettono di certo di buon umore Joe Biden, che eredita da Donald Trump una situazione economica molto difficile per via della pandemia e un Paese spaccato su tutto.
Dovesse prendere sul serio le sue tesi – e quelle del sociologo Jack Goldstone che è stato, in parte, il maestro di Turchin – Biden avrebbe motivi di preoccupazione che vanno ben oltre i possibili colpi di coda di Trump. La sinistra, dopo avere scoperto che la semplice crescita economica non aumenta il benessere di tutti (l’alta marea che solleva tanto gli yacht quanto le barche della celebre definizione di John F. Kennedy), ha puntato soprattutto sull’istruzione come strumento per ridurre le diseguaglianze. Ma nel modello di Turchin uno dei tre fattori che provocano tensioni sociali estreme negli Usa e in altri Paesi avanzati è l’eccesso, non la carenza, d’istruzione: insieme all’aumento estremo delle diseguaglianze e all’incapacità di Stati molto indebitati di sostenere lo sviluppo, a pesare sarebbe la formazione di élite troppo vaste. Troppi cittadini che studiano e aspirano al numero limitato di impieghi della classe dirigente e dei ceti professionali: un’ulteriore fonte di malessere sociale che alimenta situazioni esplosive.
Fosse vero, la sinistra avrebbe molto da ripensare, dall’istruzione alle politiche per il lavoro. Ma le analisi di questo eclettico antropologo e docente di Biologia evoluzionistica dell’Università del Connecticut, che da vent’anni cerca di applicare il metodo scientifico allo studio della storia, fin qui non hanno avuto grande eco. Per molti studiosi Turchin, un dissidente russo naturalizzato americano nato a Mosca nel 1957 ed emigrato negli Stati Uniti vent’anni dopo, è uno scienziato un po’ eccentrico che cerca di prevedere il futuro inserendo modelli matematici nell’analisi dell’evoluzione dei popoli.
L’uso delle tecniche di Big Data in questo campo degli studi umanistici viene guardato, a dir poco, con scetticismo dagli storici tradizionali per i quali la pretesa di applicare all’uomo sistemi numerici impiegati per studiare la biologia è velleitaria: il libero arbitrio che distingue l’uomo dalle altre specie animali rende impossibile ingabbiare la storia lungo i binari rigidi di un metodo scientifico.
La previsione di un aumento della violenza legato alle forti diseguaglianze economiche anziché a scintille ideologiche con l’America finita in un vortice molto pericoloso, viene liquidata da molti come una chiacchiera da bar: facile prevedere scontri sociali quando hai un Trump capace di convincere tre quarti del suo elettorato che Biden gli ha rubato la presidenza.
Ma la denuncia di Turchin non è di ieri: lui parla di un 2020 anno-cerniera potenzialmente esplosivo da almeno vent’anni, cosa che ha portato pubblicazioni come «The Atlantic», «Wired» e «The Economist» a presentarlo come un moderno profeta. Etichetta che lui rifiuta: «Non sono un profeta, anzi sono il contrario: uso il metodo scientifico per individuare delle tendenze e cercare di capire, per questa via, quali teorie sono fondate e quali no».

Turchin respinge ogni accostamento della sua cliodinamica (la metodologia da lui inventata un paio di decenni fa e battezzata con il nome di Clio, la musa della storia nella mitologia greca) alla psicostoria di Isaac Asimov. Sostiene che chi lo paragona ad Hari Seldon, il matematico che nei suoi romanzi prevede l’ascesa e la caduta degli imperi, sbaglia. Se non altro perché «Seldon considera solo i processi matematici lineari, visto che le storie di Asimov appartengono a un’era nella quale non si era ancora imposta la teoria del caos». E poi Asimov scriveva quando (anni Cinquanta) l’informatica muoveva ancora i primi passi. Ed è proprio l’impegno con il quale Turchin cerca di utilizzare i progressi delle tecnologie digitali – e di Big Data – per arricchire lo studio della storia che sta cominciando a provocare qualche ripensamento tra gli storici tradizionali. In fondo anche G.F.W. Hegel, Lev Tolstoj e Oswald Spengler cercarono di sviluppare teorie cicliche della storia. E se gli studiosi tradizionali, abituati a immergersi nei singoli eventi, personaggi, epoche, sezionando e scavando nelle fonti, vedono Turchin come gli astronomi guardavano Nostradamus, lui si sta guadagnando un posto tra gli autori delle «megastorie»: le cavalcate attraverso i millenni di Jared Diamond, Steven Pinker o Yuval Noah Harari. Quello di Turchin è un racconto più freddo, meno affascinante, ma è ancorato a un database che ha cominciato a costruire, con alcuni antropologi di Oxford, una ventina d’anni fa: il progetto Seshat (la dea della scrittura e delle misure nell’Antico Egitto) che ha l’obiettivo di accumulare dati in quantità sufficiente da consentire di applicare metodi statistici e probabilistici alla storia. Quella che all’inizio sembrava un’impresa disperata per scarsità di materia prima, ha cominciato a prendere forma negli ultimi anni a mano a mano che la potenza delle nuove tecnologie informatiche ha portato a digitalizzare anche molti archivi dell’antichità, consentendo, ad esempio, di ricostruire aspetti importanti dell’evoluzione sociale inglese nei secoli attraverso i registri parrocchiali.

Ora, anche se molti storici (e giornali) inorridiscono davanti al Nobel della Fisica Murray Gell-Mann, per il quale la scoperta di leggi della storia simili a quelle della sua disciplina è solo questione di tempo (non esisterà mai – scrive il «Guardian» – un’equazione capace di prevedere il comportamento di Oliver Cromwell o Giovanna d’Arco), nel mondo nascono centri di ricerche sociali e storiche che usano le tecniche di Big Data per interpretare la realtà: è il caso del Cambridge Group for the History of Population o del Complexity Science Hub di Vienna mentre Goldstone, docente della George Mason University, è divenuto consulente dal National Intelligence Council: il think tank dei servizi segreti federali che studia rischi e strategie di lungo termine.
Anche intellettuali come Ross Douthat, che in passato avevano irriso Turchin, cominciano a prenderlo sul serio. Lui tranquillizza gli storici: non metto in discussione il vostro lavoro – dice – ma accanto alle storie dei grandi leader e delle guerre – aggiunge – va sviluppata la storia comparata che ragiona su una scala più ampia e va supportata con un grande volume di dati per capire come funzionano le società e sviluppare modelli probabilistici.
Le opere di Turchin – da Historical Dynamics del 2003 al recentissimo Figuring out the Past, scritto con Daniel Hoyer (sottotitolo: «Le 3.495 statistiche essenziali che spiegano la storia del mondo») appena pubblicato in America da Public Affairs come libro dell’«Economist» – segnano questo suo percorso faticoso con limiti che lui stesso denuncia: le statistiche del passato messe insieme sono parziali e, per evitare un’eccessiva dispersione, lui ha limitato le ricerche a 57 società dell’antichità, del Medioevo e dell’era moderna. Uno sforzo monumentale con «storici e archeologi che – racconta Turchin – ci hanno aiutato a correggere errori e omissioni. Ce ne saranno altri. Siate comprensivi e, anzi, aiutateci segnalandoli».
Non un profeta, dicevamo. Turchin pensa a sé stesso come a una specie di vulcanologo: registra le tensioni che si accumulano, indica dove esploderanno i conflitti ma, come nel caso dei terremoti, non sa dire quando arriverà l’evento sismico.
Certo, a prendere per buono il suo metodo, le rivoluzioni perderebbero la loro forza epica. Non più la ribellione che spazza via un regime corrotto e illiberale, ma la risposta a una crisi ambientale: l’incapacità di una società di assorbire rapide crescite della popolazione. Così anche il fenomeno Donald Trump, che ha sconvolto l’America, viene ridotto a «esempio dei conflitti nelle élite sovradimensionate: un aspirante respinto dall’alta società che si vendica trasformando la ricchezza in potere politico conquistato cavalcando lo scontento delle masse».