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 2020  novembre 29 Domenica calendario

QQAN10 Intervista a Raffaele Alberto Ventura

QQAN10

Il punto di partenza è la crisi di legittimazione dei «competenti», termine usato spesso dai populisti per denigrare la scienza e gli esperti del sapere ufficiale. Ma il saggio Radical choc (Einaudi) è anche un affresco impietoso di una crisi di sistema che si allarga alla politica, all’economia e perfino alla democrazia. Quello di Raffaele Alberto Ventura, ex operatore del marketing e ora analista di geopolitica a Parigi, è una sorta di viaggio al termine dello Stato moderno. Perché – sostiene l’autore chiamando a testimoni grandi pensatori, ma anche dimenticati scrittori di fantascienza come Lino Aldani – siamo alla fine di un processo storico. Il sottotitolo del volume è Ascesa e caduta dei competenti.
La storia della Ragione, lei scrive, è anche la storia della sua bancarotta. E ancora: «Il nostro tempo è passato e il mondo in cui siamo cresciuti appartiene a ieri».
«L’Occidente si trova di fronte a una crisi di crescita, di coesione sociale e di paradigmi scientifici. La competenza è uno dei punti di approccio a un tema più ampio, che è l’esaurimento di un processo storico. Siamo tutti d’accordo nel dire che sta finendo qualcosa, ma cosa? L’ordine mondiale uscito dalla Seconda guerra mondiale nel 1945? L’ordine culturale fissato dalla Rivoluzione francese? O lo Stato moderno?».
Lei si definisce un competente?
«Per i competenti sono un outsider e per gli outsider sono un competente. Ho una formazione filosofica, ho gravitato nel mondo editoriale e nel marketing e collaboro alla rivista “Esprit” e al Groupe d’études géopolitiques di Parigi».
I competenti nascono per difenderci dai pericoli. Per il filosofo inglese Thomas Hobbes, gli esseri umani si associano tra loro per neutralizzare la paura reciproca.
«Il modello si evolve cercando di metterci al riparo da sempre nuovi rischi. Ma il paradigma della sicurezza totale si rivela a lungo andare una spirale senza fine. E c’è da considerare l’effetto iatrogeno: per ogni pericolo che si vuole controllare, se ne creano molti altri. Il sistema cerca di auto conservarsi espandendosi e scaricando le tensioni su altri sottosistemi. Ma ricordiamoci la seconda legge della termodinamica: ogni tentativo di mettere ordine in un sistema chiuso aumenta il grado di entropia, cioè di caos, al di fuori del sistema».

Lei parla della legge dei rendimenti marginali decrescenti, evocando l’economista classico inglese David Ricardo, vissuto tra il Settecento e l’Ottocento.
«La nostra società è fondata sulla promessa di una crescita infinita. Ma la curva dei miglioramenti conseguibili non è infinita. Ogni scoperta e applicazione tecnologica del passato, dall’elettricità alle ferrovie, ha prodotto un enorme sviluppo. Oggi i margini di crescita sono ridotti. Le ricerche compiute dai competenti hanno un costo enorme, a fronte di risultati deludenti, perché è diventato sempre più complicato controllare tutti i pericoli. La ruota della modernizzazione si è inceppata. Ed è destinata a incepparsi anche al verificarsi di nuovi eventi imprevisti. Si cita spesso l’esempio del tacchino induttivista. Convinto che ogni giorno sarà uguale al precedente, finché non viene preso per il collo e mangiato per il pranzo del Ringraziamento».
Lei prefigura un possibile futuro di modernizzazione senza democrazia.
«È una delle ipotesi. Oggi gestiamo i rischi in un modo che contraddice i nostri princìpi. Che il modello cinese sia più efficace del nostro sotto diversi profili è un dato di fatto. Il problema è il prezzo da pagare per ottenere certi risultati. Ma anche noi in questi mesi abbiamo fatto piazza pulita di valori che sembravano non negoziabili».

Anche lei crede che si possa parlare, come il filosofo Giorgio Agamben, di «dittatura sanitaria»?
«No, il mio non è un giudizio politico o moralistico, dico solo che il nostro sistema non funziona più. Che non è più sostenibile».
Si tende comunque a pensare che questi mesi segnati dal Covid-19 siano solo un’eccezione, un periodo transitorio prima di tornare alla normalità.
«È un errore. Ci saranno sempre nuovi rischi di epidemia. Per non parlare dell’ecologia, un’altra gigantesca questione che mette in crisi la governance democratica. Siamo entrati in una fase in cui è necessario limitare alcune libertà per gestire i rischi».
Il punto debole del suo libro è che non indica soluzioni.
«È un libro che non ha in alcun modo la vocazione a rassicurare o a fornire soluzioni. Perché forse in realtà non ce ne sono. La mia tesi è che siamo di fronte a un processo storico difficilmente reversibile».
C’è un modo per porre rimedio all’estensione del dominio della sicurezza, per dirla con lo scrittore francese Michel Houellebecq?
«Dobbiamo imparare ad accettare l’incertezza. Modificare i criteri di selezione della classe dirigente e combattere il feticcio della meritocrazia. C’è un’inflazione delle credenziali. Il sistema educativo è un’immensa macchina di produzione di titoli e segnali, che però non corrispondono più alle competenze effettive e costano troppo».

Lei non condanna apertamente il populismo.
«Cerco di ascoltare quello che si muove nella società e di essere neutrale. Serve un esercizio di relativismo e di umiltà. Quando arriva una rivoluzione, chi incarna la scienza e la razionalità (ovvero tutti noi, in quanto competenti, moderati e istruiti) considera quel rivolgimento un male e un’assurdità. Ma le rivoluzioni accadono quando si verifica qualcosa di impensato e inatteso, che prevale per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la scienza. Si tratta di delegittimare il paradigma militante e, come diceva lo storico della scienza Paul Feyerabend, è chiaro che il proselitismo alle nuove idee deve essere realizzato facendo ricorso a mezzi irrazionali come la propaganda, l’emozione, ipotesi ad hoc e pregiudizi di ogni sorta».
In questo processo di ribaltamento hanno un ruolo cruciale quelli che lei chiama gli «spostati».
«Sì, è il proletariato intellettuale, l’élite sempre meno esclusiva di competenti sempre meno competenti, individui esclusi dal mercato che non sa che farsene. Sono gli spostati, gli outsider, che fanno la storia e provocano i cambiamenti di paradigma».
Mette a disagio questa sua neutralità nel conflitto in corso. Dovremmo dunque rinnegare la scienza e restare inermi di fronte all’irrazionalità?
«Io non sono certo salito sul carro del trumpismo, dei primi Cinque Stelle o dell’ala populista del Pd. Quando si entra in una fase rivoluzionaria, essa finisce quasi sempre in una catastrofe. Raramente dà vita a un vero rinnovamento. Quindi bisogna stare attenti. Comunque non credo che i populisti di oggi siano autentici rivoluzionari. Dopo il fallimento dei Cinque Stelle e della presidenza di Donald Trump, il populismo si ripresenterà in modo ancora più radicale».
Lei disegna una sorta di agonia. Come se la nostra posizione fosse indifendibile.
«La strategia di non guardare in faccia i problemi non funziona. Dobbiamo correre il rischio di fare una profonda autocritica. Con tutti i rischi del caso, come si è visto con la Rivoluzione francese, nata dal tentativo del re di riformare le istituzioni del suo tempo».