La Lettura, 29 novembre 2020
Intervista a Joan Martínez Alier
La questione ambientale è centrale da tempo. Dopo la pandemia è destinata a dettare vita e programmi di cittadini, imprese, governi per anni a venire. La Fondazione internazionale Premio Balzan ha colto lo spirito del tempo e per il 2020 ha assegnato uno dei suoi quattro premi annuali a Joan Martínez Alier, economista spagnolo e docente emerito alla Universitat Autonoma de Barcelona che, si legge nella motivazione, «ha interamente dedicato la sua vita di studioso alla comprensione dei rapporti tra sfide ambientali ed economia».
Professore, giusto per inquadrare una materia ancora poco conosciuta: lei si definisce marxista?
«No, non sono un economista marxista. I marxisti hanno studiato i conflitti tra capitale e lavoro, non quelli ambientali. Io sono influenzato dagli studi sull’ecologia umana, su come studiare i flussi dell’energia e dei materiali nell’economia. Ma credo che la storia dipenda molto dai conflitti sociali. Ora sono importanti i movimenti ecologisti e femministi. Per questo mi sento un eco-femminista. Penso che Karl Marx ne sarebbe perplesso».
Ok. Qual è la differenza tra un economista e un economista ecologico?
«Ci sono due differenze principali. Primo, gli economisti ecologici studiano il metabolismo sociale, i flussi di energia e materia nell’economia. Secondo, gli economisti ecologici non si concentrano solo su mercato e prezzi, ma anche su altri valori. Il valore del lavoro domestico non pagato, per dire, e il valore del contributo fornito dalla natura agli umani, fuori dai mercati. Ad esempio il clima, la pioggia, la fotosintesi».
Lei è un esperto nel campo della relazione tra energia ed economia. E dice che l’economia non è circolare, è entropica.
«Certo che l’economia industriale è entropica. Noi usiamo non solo l’energia del sole ma anche l’energia solare del passato trasformata in carbone, petrolio, gas. Bruciamo combustibili fossili. E non li puoi bruciare due volte. I materiali come i metalli, il legno, la sabbia, la ghiaia sono riciclati solo in piccola proporzione. Il tasso di circolarità dell’economia mondiale è attorno al 5%. Quindi, l’economia industriale va sempre verso ciò che chiamiamo “frontiere dell’estrazione di materie prime” per procurarsi nuove risorse. È per questo che ci sono così tanti conflitti ambientali, dall’Artico all’Amazonia».
Lei ha avuto diverse esperienze sul campo, dall’America Latina all’India. I poveri sono davvero preoccupati dell’ambiente?
«La gente nei Paesi poveri è davvero preoccupata. Nelle zone rurali, vivono molto direttamente i guasti ambientali. Immaginiamo una compagnia mineraria che arriva in un’area rurale e inquina l’acqua. I poveri dipendono dall’acqua dei pozzi e dei fiumi. Ciò non è considerato nella contabilità macroeconomica di un Paese ma è essenziale per la sussistenza. Lo stesso se un impianto a carbone per fondere il rame arriva e inquina l’aria con biossido di zolfo. Per questa ragione la gente spesso protesta. Queste persone sono l’avanguardia del movimento per la giustizia ambientale. Nei Paesi poveri ci sono stati molti ambientalisti uccisi dalla polizia o dalle compagnie minerarie stesse».
La situazione in Cina?
«La crescita della Cina ha avuto come base il carbone. Il Paese però ha una notevole capacità di innovazione tecnologica, può essere che le energie alternative si sviluppino in fretta. Sul piano interno, la crescita cinese continua e non mi aspetto rivolgimenti sociali: il Partito comunista è molto forte. All’estero, la Belt and Road Initiative (o Nuova Via della Seta, ndr) significa che in Africa e America Latina ci sono e ci saranno parecchie imprese cinesi: Pechino sta imparando a diventare imperialista».
E i Paesi ricchi? Fanno abbastanza?
«È interessante come prima della pandemia i ragazzi dei Paesi ricchi si siano mobilitati sui cambiamenti climatici. Dicono no alla crescita economica, dicono sì a un futuro migliore per tutti senza cambiamenti climatici, che sono prodotti, come si sa, dall’eccessiva combustione di carbone, petrolio, gas. Sono preoccupati per la giustizia intra-generazionale: non solo per gli esseri umani di oggi, ma per quelli del futuro. E aggiungerei che serve una giustizia per le altre specie animali, perché stanno scomparendo velocemente».
Qui c’è un problema, professore. L’economia in qualche modo deve crescere, dopo la pandemia tanti debiti andranno ripagati.
«Non dobbiamo semplificare. L’economia deve crescere, i Pil torneranno ai livelli precedenti la pandemia. Ma non con più emissione di anidride carbonica. Direi con una agro-ecologia. Certo, ci sono obiezioni, soprattutto sulla necessità di ripagare i debiti e sul rischio della disoccupazione. Ma ci sono proposte in questo senso: per dirne una, quelle sulla prosperità senza crescita di Tim Jackson».
Il capitalismo sta prendendo sul serio le sfide ambientali? Persino la finanza mondiale sembra adeguarsi ai criteri Esg (Environmental, Social and Governance).
«Noi studiamo il comportamento delle imprese e dei fondi d’investimento nell’EJAtlas, il nostro atlante dei conflitti ambientali. In generale direi che le imprese si comportano non con responsabilità ma con irresponsabilità sociale. Se possono, evitano di affrontare le loro passività ambientali. Conosco molto bene casi famosi, come Chevron-Texaco in Ecuador o Shell in Nigeria. Questa è la regola: mai pagare per i danni ambientali».
Pensa che la globalizzazione abbia avuto un effetto negativo sull’ambiente? In particolare, il commercio di materie prime e di prodotti agricoli?
«La globalizzazione è iniziata nel 1492 (la scoperta dell’America, ndr) ma allora il commercio era limitato dai mezzi di trasporto. Solo poche migliaia di tonnellate di oro e di argento potevano essere trasportate con piccole navi. Poi vennero il guano dal Perù, lo zucchero e il cotone dalle Americhe, alcune migliaia di tonnellate. Ora, il commercio di semi di soia, di cellulosa per la carta, di metalli, di carbone, di petrolio, di gas è enorme, migliaia di milioni di tonnellate all’anno. È quello che chiamiamo commercio ecologico ineguale. La crescita dell’economia di mercato avanza assieme alla crescita del metabolismo sociale e molto spesso le aree di esportazione sono sacrificate».
Veniamo ai cambiamenti climatici. Si fatica a fare passi concreti, nonostante gli accordi internazionali.
«Non credo che stiamo facendo niente di pratico contro il climate change. E nemmeno rispetto alla perdita di biodiversità. Molta chiacchiera internazionale non è azione. Ma c’è una questione sulla quale sono ottimista. La crescita della popolazione si sta fermando ovunque, il massimo sarà raggiunto a 9,5 miliardi di persone attorno al 2060. Poi declinerà un po’. Credo che sia un bene, nonostante il fatto che ci saranno altri problemi».
Torniamo all’economista eco-femminista: l’economia ecologica non trova molto spazio, per ora, nell’accademia.
«L’ecologia umana comprende tutte le suddivisioni accademiche, anche lo studio dei cambiamenti climatici, e nelle università praticamente non si insegna: c’è uno spazio vuoto, non ci sono cattedre, soprattutto nell’Europa continentale. Nei Paesi anglofoni è un po’ diverso, i dipartimenti universitari sono più agili, meno fossilizzati».