Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2020
QQAN62 Non ti sto imitando, mi sto adattando
QQAN62
Recentemente, al termine di un congresso neuroscientifico, un collega un po’ burlone si è rivolto all’organizzatore dell’evento per accomiatarsi e, com’è costume, ringraziarlo dell’elevata qualità delle relazioni asserendo con aria convinta: «Un congresso davvero fantastico! È semplicemente incredibile: siamo stati qui per ben tre giorni e nessuno ha parlato di neuroni specchio!».
L’aneddoto sottolinea due diversi aspetti. Uno d’interesse più ristretto che fa riferimento a quel genere di sottile malevolenza che a volte viene indirizzata (masticando amaro) nei riguardi di quei colleghi che hanno ottenuto un risultato scientifico davvero importante, come è stato il caso per la scoperta dei neuroni specchio da parte di Giacomo Rizzolatti e del suo gruppo a Parma. L’altro aspetto, invece, è d’interesse più generale perché riguarda il rischio inerente alle scoperte che travalicano i confini di una singola disciplina di essere utilizzate a sproposito, così da renderle non già ingannevoli ma pleonastiche.
Massimo Ammaniti e Pier Francesco Ferrari, rispettivamente psicoanalista il primo, professore di psicopatologia a La Sapienza di Roma, neuroscienziato ed etologo il secondo, direttore aggiunto all’Istituto di Scienze Cognitive Marc Jeannerod a Lione, si sono prudentemente tenuti alla larga dalle facili generalizzazioni, per scrivere un libro genuinamente interdisciplinare, nel quale i differenti settori scientifici non travalicano e non competono tra di loro, ma si completano reciprocamente.
Il tema del libro è rappresentato dallo sviluppo delle relazioni interpersonali, dal feto all’adulto, considerando l’io motorio come il fondamento della cognizione sociale. Un approccio nuovo per chi sia abituato a considerare l’azione, l’esperienza motoria, come fondamentale per la cognizione a livello individuale, ma non a livello interpersonale. L’idea che la cognizione sociale sia radicata nel corpo ha avuto in questi anni numerose conferme sia dagli studi etologici e neurobiologici, in special modo, per l’appunto, in ragione della scoperta del sistema dei neuroni specchio, sia dalle osservazioni cliniche degli psicoanalisti.
Com’è noto il sistema dei neuroni specchio rivela che gli stessi circuiti neurali che si attivano quando si esegue un’azione si attivano anche quando si osserva qualcun altro compiere la medesima azione. Dall’osservazione che possa esistere una connessione fondamentale tra l’esecuzione di azioni intenzionali e la capacità di comprendere le azioni degli altri consegue l’idea che il comportamento motorio possa costituire il fondamento della nostra vita di relazione.
La questione cruciale sulla quale il dibattito infuria è tuttavia come origini questo legame tra l’esecuzione delle azioni e la percezione delle stesse azioni negli altri. Il punto di vista degli autori è che vi sia una predisposizione innata a connettere l’osservazione e l’esecuzione delle azioni motorie. Lo psicologo Andrew Meltzoff aveva scoperto, ad esempio, che i neonati imitano il comportamento di protrusione della lingua di una persona. Pier Francesco Ferrari è noto tra gli specialisti per aver studiato le interazioni madri piccoli nei primati non umani e aver individuato risposte imitative di protrusione della lingua in macachi di soli tre giorni di vita.
Tuttavia vi sono scienziati, come Cecilia Heyes, all’università di Oxford, che sostengono che l’imitazione non sia un istinto cognitivo, ma il risultato di processi di apprendimento associativo. Il problema è presto illustrato. Come possiamo spiegare questa singolare capacità dei neuroni specchio di stabilire una corrispondenza tra l’azione osservata e l’azione eseguita? Una possibilità è che si tratti di un adattamento specifico, la cui funzione sarebbe quella di assistere gli organismi a comprendere (seppure implicitamente) quello che viene fatto dagli altri organismi. Se così fosse allora dovremmo aspettarci che gli animali, soprattutto i primati – umani o non umani – nascano per così dire già dotati dei neuroni specchio.
Certo, l’esperienza sensoriale e motoria potrebbe giocare un importante ruolo di modulazione, promuovendo o facilitando il loro sviluppo, ma la capacità intrinseca do questi neuroni di connettere azioni percepite e azioni eseguite sarebbe determinata biologicamente. Una possibilità alternativa è quella di ipotizzare, come fa Cecilia Heyes, che i neuroni specchio siano semplicemente il risultato di processi di apprendimento associativo, del tipo ad esempio di quelli conosciuti dai tempi di Pavlov e dei suoi riflessi condizionati, che si basano sulla presenza di una correlazione temporale tra gli eventi. Ad esempio, ogni volta che un essere umano (o una scimmia) compie un movimento di prensione guidato dalla vista, l’attivazione dei neuroni motori che controllano la prensione e dei neuroni visivi che guidano l’arto verso l’obiettivo, sono correlati dal punto di vista temporale.
Così attraverso ripetute associazioni del medesimo tipo, la co-occorrenza nel tempo delle attività conferirebbe al neurone motorio una proprietà nuova, ovvero quella di attivarsi non solo quando viene eseguito il movimento di prensione ma anche quando lo si osserva, esattamente come i cani di Pavlov dopo un certo numero di associazioni salivano nell’udire il suono del metronomo anziché alla sola presentazione del cibo. Ecco quindi perché risultati come quelli ottenuti da Ferrari con i neonati di macaco sono così importanti. Importanti ma non risolutivi dal punto di vista di Cecilia Heyes, perché tre giorni sono comunque un tempo sufficiente per lo sviluppo di associazioni, e perché alcuni studiosi adesso negano che vi sia imitazione della protrusione della lingua nei neonati sostenendo che i risultati di Meltzoff non si replicano, mentre Meltzoff e i suoi colleghi sostengono invece il contrario e rilevano importanti errori metodologici nel fallito tentativo di replicazione.
Personalmente sarei incline a parteggiare per l’opzione biologistica, perché è quella che rende meglio conto del fatto che il comportamento sia adattativo. Mi spiego: il problema con le spiegazioni associazioniste è che nel mondo un sacco di eventi sono legati temporalmente gli uni agli altri, ma solo alcuni accoppiamenti sono adattativi, cioè contribuiscono al successo riproduttivo degli organismi. Stabilire una corrispondenza tra le azioni che vedo e quelle che eseguo costituisce un enorme vantaggio per un organismo sociale, perché gli consente di capire cosa fanno le altre creature. Tuttavia, come spesso accade nelle controversie scientifiche, forse la verità sta nel mezzo. Io la metterei in questi termini. Ci sono delle forme speciali di apprendimento associativo che vanno sotto il nome di ««apprendimento indotto da stimoli scatenanti» (o releaser). Si tratta di quegli stimoli scoperti dagli etologi che spontaneamente scatenano, agendo come delle chiavi che sbloccano una serratura, delle risposte stereotipate che sono chiamate pattern di azione fissa.
Se avete letto Konrad Lorenz o Niko Tinbergen ricorderete lo spinarello che attacca tutto ciò che è colorato di rosso nella parte inferiore (il colore che assume la pancia dei maschi rivali nel periodo riproduttivo) o i piccoli di gabbiano reale che spontaneamente beccano la macchia colorata presente sul becco del genitore (per provocare nell’adulto il rigurgito del cibo di cui poi si nutriranno). Stimoli convogliati dal volto come il sorriso hanno caratteristiche da releaser, e scatenano spontaneamente la medesima risposta nel giovane individuo che li osserva (e viceversa), per ragioni che sono appunto adattative. Queste forme di apprendimento indotto da stimoli chiave potrebbero costituire il fondamento biologico su cui foggiare, riciclandone il meccanismo, l’associazione di azioni e percezioni sulla base della pura co-occorrenza temporale.
Dovrò ricordarmi di discutere di tutto questo e di molto altro con agio, alla prima occasione, con gli autori di questo interessante libro.