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 2020  novembre 29 Domenica calendario

QQAN30 Su "Fellini, Roma" di Andrea Minuz (Rubbettino)

QQAN30

Il lancio sul mercato americano del Satyricon di Federico Fellini (1969) fu accompagnato da una frase che fissava il senso del film nel confronto tra due temporalità: «Rome. Before Christ. After Fellini». Era come se per il tramite della visionaria trasposizione cinematografica dell’opera di Petronio tutta la storia di Roma precipitasse dentro Fellini e ne uscisse trasfigurata, antica e moderna a un tempo, splendida e devastata, sapiente e folle, materna e traditrice, ingorda di passato e incurante del futuro. Fellini era del resto il figlio che la Roma cinematografica aveva a lungo aspettato, il figlio chiamato a sé dalla provincia romagnola alla fine degli anni Trenta, quando il regime fascista aveva già messo in piedi tutte le grandi istituzioni del cinema italiano, tra cui quella Cinecittà che sarebbe divenuta il suo regno. Di Roma era la madre, Ida Barbiani, e fin dai tempi delle prime visite ai parenti nella capitale, Fellini avvertiva che quel luogo gli sarebbe appartenuto e lui sarebbe appartenuto a quel luogo, un oscuro oggetto del desiderio dall’ambigua connotazione materna: «Roma è una madre, ed è la madre ideale, perché indifferente. È una madre che ha troppi figli, e quindi non può dedicarsi a te, non ti chiede nulla, non si aspetta niente. Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai».
Nel corso degli anni, nelle molte interviste e in alcuni suoi scritti, Fellini è tornato spesso sul senso di Roma, sulla sonorità di quel nome, su quelle quattro lettere che gli martellavano le viscere e gli procuravano paure, eccitazioni, tenerezze e allucinazioni che prendevano forma in abnormi disegni, sogni tormentati e mondi costruiti negli spazi meta-urbani di Cinecittà. Nell’immaginazione felliniana Roma poteva assumere le fattezze di «un faccione rossastro che assomiglia a Sordi, Fabrizi, la Magnani», poteva rivelarsi un luogo sicuro dove affermare la propria potenza e vitalità – «a Roma mi sentivo quasi invulnerabile, come se il restare lì mi permettesse di non morire» -, oppure poteva tramutarsi in una compagna debole, bisognosa di assistenza: «quando mi capita di assentarmi da Roma sto in ansia per la città, nel timore che le possa succedere qualcosa mentre non ci sono, come se io con la mia presenza potessi proteggerla».
Nel tempo curvo e sospeso che fluisce dall’immaginario felliniano, fin dal primo film firmato da solo, Lo sceicco bianco, Roma è il luogo della costante negoziazione tra la realtà e la caricatura, tra la provincia e la metropoli, tra il primitivo e la modernità, tra il desiderio e la sua frustrazione, tra un’eccessività egotica e il bisogno di essere amati. Non basterebbe nemmeno tutta la filmografia felliniana per sondare gli abissi dell’intricato rapporto di interdipendenza tra Roma e questo suo strano figlio, ma se si dovesse scegliere un titolo in grado di esibire l’ermetismo di un tale mistero senza sminuirlo, quel titolo non potrebbe essere che Roma (1972).
Roma è quello che si direbbe un film per pochi, tra i più sperimentali del suo autore sia nella forma visiva che nell’andamento narrativo, un film dalle esigue fortune critiche, preda di varie polemiche, un film che nel suo pensarsi e svilupparsi in maniera diseguale e frammentaria costituisce però uno dei punti più alti di quella mediazione tra realtà e caricatura di cui si diceva. Questo «documentario di fantasia» in forma di onirica indagine viene oggi ripreso, in tutta la sua capacità di attrarre ed irradiare l’energia più profonda della poetica felliniana, in un agile studio di Andrea Minuz: Fellini, Roma, appena uscito per Rubbettino. La scelta del titolo secco, con quella virgola che segna una pausa identitaria tra il nome del regista e quello della città, senza ulteriori specificazioni, lascia già intendere come l’analisi di Roma rappresenti l’occasione per ripercorrere l’ossessiva passione di Fellini per la città, riannodando, attraverso il tessuto del film, fili che riguardano la biografia del Maestro, il suo lungo corpo a corpo con la capitale e la lucidità con cui ha saputo far riaffiorare dall’inconscio dell’Urbe la fitta rete dei «discorsi sul mito e il disfacimento di Roma che da sempre attraversano il carattere nazionale e l’identità italiana».
Minuz considera Roma come «una pura antologia della visualità felliniana», che da una parte si nutre di modelli grafici e pittorici che incrociano il vasto repertorio di riferimenti iconografici del suo autore – da Attalo a Scipione, fino a Piranesi -, dall’altra scommette sull’irriconoscibilità di certi luoghi, sulla cupezza e la claustrofobia, sul caos, sul mostruoso e sui rumori sregolati «di una città che agli inizi degli anni Settanta si sta trasformando in un magma metropolitano fuori controllo». Fellini ha sempre amato, di Roma, la noncuranza con cui osserva i suoi figli, fino a dire che trovava in questo atteggiamento «una saggezza antichissima; africana quasi; preistorica». Minuz riprende il filo di questa saggezza noncurante e paradossale, di questa Roma africana, per fare di Roma «il simbolo dell’Italia disorientata degli anni Settanta», la nemesi della capitale del jet-set anni Sessanta fermata ne La dolce vita e il brusco risveglio dal sogno psichedelico del Satyricon. Di più. Minuz arriva a richiamare per Roma l’esperienza del documentario «esotico-erotico» tipico del cosiddetto filone dei «mondo movies» degli anni Sessanta, con un Fellini etnologo che «mostra quanta Tahiti o Perù possono esserci tra le prostitute dell’Appia Antica, negli scavi della metro da cui spunta, non a caso, una zanna di mammuth».
La visionarietà archeologica e profetica di Fellini fa di questa «gran madre sciattona», come la definì all’uscita del film Lietta Tornabuoni, un saggio critico in forma di acuto sberleffo, che addirittura può dialogare con parte della letteratura urbanistica sulla capitale che tra anni Sessanta e Settanta andava ripensando e denunciando glorie e cedimenti: dalle cronache di Antonio Cederna (Mirabilia Urbis, 1965) alle istantanee di Roma in cocci di Vittorio Metz (1968), dal Ferrarotti di Roma da Capitale a periferia (1970) alle autorevoli voci che Bompiani raccolse in Contro Roma (1975). Roma di Fellini, con altro linguaggio, sembra quasi restituirci, per lampi, i sommi capi di questo dibattito; Fellini, da par suo, inseguiva la ragione immaginaria dell’esistere di una città disperatamente condannata all’eternità e tentava di trovarle un posto tra le illusioni del cinema, sicuro che, come dice Gore Vidal nella sua apparizione nel film, Roma rimarrà pur sempre «il posto ideale per vedere se tutto finisce oppure no».