Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2020
Il bicentenario della nascita di Vittorio Emanuele II
«Io sono un poco stanco dal gran lavoro di giorno e di notte. Domani mi fanno re d’Italia ed io ti mando il mio muso con tanti saluti».
È una breve lettera da padre a figlia quella che Vittorio Emanuele II scriveva il 13 marzo 1861 alla principessa Clotilde. Il giorno dopo, avrebbe compiuto 41 anni, festeggiandoli col nuovo titolo regale, offertogli dal Parlamento italiano. Prima di lui l’ultimo re d’Italia era stato Napoleone.
Quest’anno ricorre, quindi, il duecentesimo anniversario della nascita di colui che fu il primo capo di stato italiano. Un uomo cui non si può negare quel ruolo di «padre della Patria» che, pur gravido di retorica, rimanda a un’azione storica innegabile, per quanto giudicabile in vario modo.
Nonostante, però, le tante opere apparse dopo il 1878, quando Vittorio morì non ancora sessantenne, mi pare che l’Italia debba ancora far compiutamente i conti con la sua figura. L’ultimo decennio della ricerca storica ha prodotto risultati importanti in questo senso. Penso, in primis, alla biografia di Adriano Viarengo (Vittorio Emanuele II, Salerno, 2017) – che ha permesso finalmente di superare quella, ormai assai datata, di Denis Mack Smith (1972) – e al volume di Pierangelo Gentile sul ruolo politico della corte (L’ombra del re. Vittorio Emanuele II e le politiche di corte, Carocci, 2011).
Molto però resta ancora da fare per depurare la figura del sovrano dalle scorie che nel tempo si sono accumulate su di essa sia a opera dell’interpretazione sabaudista sia di quella anti-sabaudista. Diciamolo chiaramente: la storia sabauda è un tema complesso, non per particolari difficoltà nella ricerca (analoghe a quelle relative alla storia di altre dinastie italiane ed europee), quanto per la ricezione che ha in ambito italiano. Se si affronta la storia dei Carignano e del loro ruolo nel Risorgimento e nella «Nuova Italia» ci si deve muovere in un contesto in cui, fatte salve le opere di pochi veri studiosi (da Filippo Mazzonis a Umberto Levra sino ai citati Viarengo e Gentile), dominano libri per lo più opera di giornalisti, improntati da una parte alle tesi diffuse da Giuseppe Antonio Borgese e Luigi Salvatorelli negli anni della guerra e del referendum istituzionale, dall’altra a quelle di Giovanni Artieri negli anni Settanta. Una letteratura spesso impreziosita da citazioni gramsciane, frutto, però, non di rado di letture incerte o affrettate.
Eppure i temi per nuove ricerche certo non mancherebbero. Basti pensare, per esempio, alla capacità del re – pur uomo di non grande cultura e «parsimonioso leggitore di libri», come lo definì Salvatorelli – di costruire o di favorire la costruzione d’immagini atte a crearne un mito già in vita e a diffonderne la popolarità.
Vittorio Emanuele II era nato in una monarchia che non aveva reciso i legami con l’antico regime. Suo padre Carlo Alberto lo aveva educato perché un giorno fosse un sovrano assoluto non meno di quanto lo erano stati il re di Francia Enrico IV e l’imperatore Francesco I, entrambi suoi antenati diretti. Eppure, salito al trono dopo la crisi del 1849, Vittorio Emanuele II si trovò ad esser un re costituzionale e a dover fare di questo la ragione stessa della sua diversità – e superiorità morale – sugli altri monarchi italiani. Per questo difese lo Statuto quando tutti gli altri sovrani ritirarono le costituzioni che in un primo tempo avevano pur concesso. Certo, ebbe la tentazione di farlo anch’egli. E il proclama di Moncalieri – con il sottotesto: votate pure, ma votate chi voglio io – non era espressione d’un limpido pensiero democratico. Ma sarebbe troppo chiedere conto di queste esitazioni a chi era giunto alle soglie dei trent’anni con una formazione che non sarebbe dispiaciuta al vescovo Bossuet. E per questo la sua capacità di comprendere e usare la modernità risulta ancora più interessante. Nella lettera che ho citato, quando scrive alla figlia «ti mando il mio muso», sembra alludere all’invio d’una sua fotografia. Sebbene in Piemonte l’uso di tale mezzo – allora modernissimo – risalga al 1839, non si conoscono foto di Carlo Alberto. Al contrario, Vittorio Emanuele non solo fu il primo Savoia a farsi fotografare, ma ebbe una particolare predilezione per questa pratica, di cui colse subito l’importanza propagandistica. Sono decine, se non più, le fotografie che il re commissionò nell’arco di un trentennio e che ebbero grande importanza nel divulgare in Italia e in Europa la sua immagine. Per questa ragione il re vi prestava molta attenzione. Di alcune foto, infatti, possediamo due versioni: la seconda ritoccata, per consegnare a chi l’avesse vista l’aspetto del re che questi riteneva più consono alla sua idea di sovranità. Eppure, manca una storia fotografica di re Vittorio. Così come una ricostruzione di tutte le numerose immagini che furono costruite sul suo personaggio. A partire da quella del re Galantuomo, tanto popolare, ma capace di suscitare anch’essa l’ironia degli avversari. Borgese, in un articolo apparso su «Life» nell’agosto 1943, parlò di «an absent-minded irony, intimating how exceptional it is for a king, at least for one of the House of Savoy». In un’Europa, poi, in cui quasi nessun re combatteva più, egli legò come nessun altro la sua immagine alle proprie capacità militari. L’immagine del re conquistatore colpì anche Gramsci, il quale nei Quaderni del carcere ricordava come, dopo esser entrato a Roma, il re si lamentasse in piemontese con i suoi generali perché non c’era «pi nen da pié» (più nulla da prendere). Per questa ragione Quintino Sella lo chiamava «l’ultimo dei conquistatori». All’universo militare era legata anche l’immagine del re caporale, in riferimento al titolo di caporale degli zuavi, che gli fu concesso nel 1859 per la sua condotta eroica alla battaglia di Palestro. Sino agli Trenta del Novecento la raffigurazione di re Vittorio con la pittoresca uniforme di caporale fu assai popolare, e si ritrova persino su scatole di cioccolatini, figurine per bambini e album musicali. Una storia a sé è quella, poi, del re cacciatore, che legò Vittorio a un capo d’abbigliamento molto particolare: il cappello calabrese. Questo nel 1848 era stato adottato dai milanesi insorti contro gli austriaci e per questa ragione era stato vietato da molti altri sovrani italiani. In tal modo, mentre si faceva ritrarre o fotografare a caccia di stambecchi fra le montagne valdostane, il re d’Italia rimandava sia al Meridione sia alle origini del Risorgimento. Tutte queste immagini, pur parte di una ben studiata propaganda, contenevano in sé elementi di verità, cosa che le rendeva ancor più forti, ma non erano prive di ambiguità. Ciò mi pare particolarmente evidente in quella del re borghese, cui potevano accostarsi i pochi ammessi alla tenuta della Mandria, alle porte di Torino. In essa il re viveva con la donna da lui amata, la celebre Bela Rosin, e la seconda famiglia che aveva costruito con lei. Proprio il rapporto con la popolana Rosa Vercellana e, insieme, con i numerosi figli avuti dalle tante amanti vere e presunte che gli furono attribuite rimandava, certo, a uno standard di vita apparentemente borghese, ma in realtà riconducibile a quel topos del re fertile, che era stato assai fortunato fra i sovrani dell’Europa moderna. Si pensi al suo citato antenato, Enrico IV, il vert galant di tante storie popolari d’Oltralpe.
Nel primo re d’Italia, insomma, antico e moderno si fondevano, in un amalgama singolare e sconcertante, che non mancava di colpire i suoi contemporanei e che era una delle cause del suo fascino, cui non fu insensibile neppure la regina Vittoria. Una caratteristica che influì non poco sul suo modo d’esser re e di partecipare alla politica del regno che aveva contribuito a costruire.