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 2020  novembre 29 Domenica calendario

Intervista al fotografo Guido Harari

Guido Harari, 68 anni, in attività da quasi mezzo secolo, è il più noto e apprezzato fotografo rock italiano. Oggi è ospite in streaming del festival Pazza Idea di Cagliari: «Il tema è Generazione Passione, due parole che si sposano molto bene con il mio percorso».
Parliamo di generazione, allora: Neal Preston si dà il merito di aver inventato, con altri, un linguaggio visivo all’altezza del rock. Che ne dice?
«Il rock, e ancor prima il jazz, sono stati rivoluzioni anche visive. Per fotografarle occorreva un’elasticità nuova, non bastava più piazzare l’artista sul fondale come avrebbero fatto Irving Penn o Richard Avedon. Quando ad alcuni fotografi è stato consentito un accesso totale agli artisti, com’è stato per Preston con Led Zeppelin e Queen, si è entrati in una dimensione nuova, senza regole, in cui contava solo cogliere lo spirito dell’epoca senza andare fuori tempo».
Lei ha aggiunto una sensibilità europea: Patti Smith nel salone di una villa affrescata.
«Non avevo il Chelsea Hotel a disposizione, ma la secentesca Villa Arconati! Spesso mi si chiede perché io non mi sia trasferito a Londra, o a New York. Alcuni dei miei fotografi di riferimento, come Giuseppe Pino e Ugo Mulas, in America c’erano andati ma poi erano tornati. Forse troppo raffinati, troppo colti. Il mio sogno negli Anni 60 era far sì che l’Italia diventasse un punto di riferimento per il giornalismo e la fotografia musicale, come già Francia e Germania. Poi gli Anni 80 hanno visto l’affermazione del videoclip e la moda è entrata nella musica, o forse la musica nella moda, si è creato un Nuovo Ordine e si sono dispersi potenziali enormi».
In che senso si sente un fotografo italiano?
«Forse perché mi riconosco in un’arte tutta italiana, quella di arrangiarsi improvvisando. Gli anglosassoni hanno fatto marketing del loro stile. Io mi sono sempre sentito più randagio, appassionato dell’unicità dell’artista che ho davanti , tanto da resettarmi ogni volta».
Gli sguardi codificati, come quelli di David LaChapelle, o Anton Corbijn, Annie Leibovitz, sono più rassicuranti?
«L’imprevedibilità del fotografo crea panico nelle redazioni, nei clienti, nelle agenzie. Gli americani la detestano. Il randagio rimette tutto in discussione: colore? Bianco e nero? Luce naturale? Flash? Studio? Esterni? Si deve decidere in un millisecondo, e questo per me è rivitalizzante. A volte è lo stesso soggetto a scatenare tutto, Rita Levi Montalcini o Frank Zappa, per me deve sempre succedere qualcosa di nuovo, anche a costo di perdersi».
E si può trovare un dollaro quando se ne cercava mezzo, come cantano i Foo Fighters. È successo?
«Sicuro! Una mia foto di Leonard Cohen sembra scattata al Louvre e invece siamo in un hotel di Milano. È bastata, in un corridoio, una grande tela con angeli e una splendida figura femminile a seno nudo, per trovare un collegamento perfetto con il Cohen sciupafemmine. Sollecitato a simulare una specie di Sindrome di Stendhal davanti al quadro, prese un tavolino, lo piazzò davanti al quadro e ci si sdraiò in posizione fetale, col pollice in bocca come un neonato. Giocare con tanta complicità con l’immaginario del soggetto vale più di tutto».
C’è una relazione sottile con l’universo di chi si fotografa.
«A volte senti il bisogno di strappare il soggetto al suo mondo, per cogliere una sfumatura, un’iridescenza inaspettata. Rita Levi Montalcini aveva accettato di farsi ritrarre nel suo spoglio ufficetto, a Roma. La sua classica mise con maglioncino e camicetta con il pizzo mi demoralizzò ancor di più. Allora notai un giubbotto scamosciato piuttosto rovinato e, scoperto che era suo, la pregai di indossarlo. Di colpo cambiò tutto, la Montalcini mi parve uscire dal Chelsea Hotel, con un’aria d’artista alla Louise Bourgeois».
Ha annunciato una mostra collettiva alla Gam di Torino di tutte le immagini di Photo Action per Torino, un progetto con cui avete già raccolto più di 70 mila euro per il fondo Covid-19 di Ugi Onlus.
«È stato galvanizzante chiamare a raccolta oltre 100 fotografi italiani e internazionali, e coinvolgere la Gam . In un momento in cui la fotografia non sembra adeguata a cogliere la complessità psicologica ed emozionale della pandemia».
Lei ha contribuito con uno scatto celebre, di Laurie Anderson e Lou Reed.
«Mi rendo conto solo ora di essermi inconsapevolmente aggrappato a due dei miei affetti più cari nella musica. Quel ritratto così intimo, loro talmente vicini si respirano a vicenda, è l’antitesi del distanziamento sociale. Un’emozione da non dimenticare».
Come va la sua galleria di Alba Wall of Sound specializzata in fotografia musicale?
«Non è semplice portare avanti in Italia un progetto che godrebbe di ben altri riscontri all’estero La bella novità è l’interesse che hanno cominciato a mostrare i musei per questo genere di fotografia. Finalmente è possibile uscire dall’ambito specialistico delle gallerie per arrivare a un pubblico più ampio. La musica tutta, anche quella italiana, può finalmente considerarsi Storia».