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 2020  novembre 29 Domenica calendario

Reportage dalla tomba di Maradona

BUENOS AIRES — Per portare una rosa a Diego bisogna prendere l’autostrada 25 de Mayo in questo gran giorno di pioggia, e chiedere al tassista Gabriel di spingere un po’ più veloce la sua vecchia Volkswagen oltre i casermoni neri dei mercati coperti, dopo lo svincolo di avenida Coronel Roca (ma quanti anni hai Gabriel?, «Trentadue, señor», e come fai a ricordarti di Maradona?, «Oh, señor, io di lui mi ricordo tutto, anche quello che non mi ricordo»). Poi bisogna guardare molto bene quest’Argentina che scorre nei finestrini rigati dall’acqua, i capannoni, le discariche, i gommisti, i cimiteri dei camion, i nodi degli svincoli come ottovolanti. Le jacarande protendono rami lunghissimi verso il cielo cupo, rami che finiscono come dita dove esplode un trionfo di fiori viola. Li ha posati, è probabile, la misericordia di un Padreterno che non può non piangere pure lui, adesso.
L’aria sa di vento. Oggi a Baires la primavera s’è arrabbiata di brutto, cadono fulmini come a San Lorenzo e nessuna stella per nessun desiderio. Gabriel ha infilato l’avenida Mayor Irusta, dove al civico 5561 c’è l’ultima casa di Maradona. Il tassista sgomma, sbanda un po’. Ma prima di arrivare al camposanto privato dall’elegante nome di albergo – “Jardin Bella Vista” – si attraversa la baraccopoli di San Miguel che forse avrà per Diego l’aria di casa, scatole di lamiera senza acqua corrente come a Villa Fiorito dove tutto cominciò. Una camionetta della polizia chiude la strada di traverso. «Periodista, periodista!» declama Gabriel che si è calato nella parte e così la poliziotta fa ciao con la mano, indica che possiamo passare e si va.
Due chioschi per la carne alla griglia, “Carniceria Carlitos”, sono l’ultimo frammento di mondo vivo, quello della gente che mangia il bife de lomo appena scottato, il sangue si deve vedere, gustare. Poi comincia il muro rossastro coperto di fronde. Lo percorriamo fino alla casupola del guardiano che presidia un portone chiuso. Altre due macchine della polizia sostano immobili sotto il nubifragio, neppure un cane a parte noi. Bussiamo. Si scosta una tenda, che poi è una bandiera albiceleste dell’Argentina, e sbuca un testone di ciuffi scuri, il guardiano. E qui comincia la trattativa che è un racconto a due voci. « Niente camera, por favor ». Via il cellulare. Si ha l’impressione che adesso i maschi argentini assomiglino tutti un poco a Diego, con quei tratti da indio mapuche e i ricci indomabili. Il custode del cimitero è molto gentile, si presenta, lo facciamo parlare. Siamo fortunati, ha origini italiane, una specie di pronipote dei tanti emiliani e piemontesi che costruivano le dighe e le strade ferrate da qui a Santa Fe. «Veramente mio nonno Casimiro cercava l’oro sulle Ande. Io mi chiamo Daniel Maidana, piacere». Per fargli aprire la porta serviranno parole e si comincia pronunciando quel nome, l’unico possibile adesso, Diego. «L’ho conosciuto, ma certo! Io sono qui da 24 anni e ne ho 42, tutti i giorni apro e chiudo e dico alla gente dove sono le tombe che cerca. Ne abbiamo più di 6 mila». Cambiare l’acqua ai fiori e ascoltare le persone, le loro storie dolenti, le loro manie. «El Diego del pueblo, il nostro Diego veniva al cimitero per la sua mamma morta nel 2011 e per il papà, che abbiamo qui con noi dal 2015. Portava i fiori ed era gentile. Mai avuto il coraggio di domandargli una fotografia insieme, ma sono sicuro che mi avrebbe risposto di sì».
La tomba di Diego Armando Maradona è vicina, vicinissima, «due minuti a piedi», spiega Daniel. Poi vede la rosa che abbiamo in mano. «Solo un momento, però: entrare, uscire e nessuna fotografia». Vorremmo dirgli che questo fiore è come se avesse saltato con un balzo l’intero oceano, e gli infiniti controlli, e le code nella notte all’aeroporto di Malpensa, e poi di Madrid, e poi di Buenos Aires, le guardie in divisa, i medici, i certificati, i salvacondotti, le frasi spese per convincere il funzionario dell’immigrazione sulla quarantena che faremo, certamente, ed ecco il tampone fresco di 48 ore, negativo; il funzionario che alla parola “Maradona” comincia a singhiozzare, poi estrare il telefonino, cerca una foto, «qui sono con Diego molto, molto tempo fa».
E allora eccoci dentro. Dopo la torretta in stile normanno, quasi una casa a graticcio, si piega subito a destra. Il prato all’inglese è smeraldino di pioggia, ma c’è quel profumo dolciastro dei fiori quando imputridiscono, l’odore di miele della morte. Per portare una rosa a Diego servono non più di duecento passi verso i lecci e i tigli dove il terreno sale appena, una morbida collina che ricorda i cimiteri di guerra francesi ma senza le croci, solo lapidi a terra, tutte uguali. Un leprotto taglia in diagonale la scena, senza paura. La quiete è immensa, insostenibile. C’è il dolore che produce il silenzio. Ma almeno qui Maradona non ascolterà le voci di rissa che si sono levate attorno al suo catafalco, l’eredità (80 milioni di dollari, o forse sono 150), le menzogne, mogli e compagne, figli legittimi o meno, l’ultimo si chiamerebbe Santiago Lara, 19 anni, chiederà l’esumazione della salma per la prova del Dna, non vuole soldi (dice) ma solo sapere se Diego fosse suo padre, quando il campione avrebbe amato la sua mamma ex modella e poi consumata dal cancro. E neppure arriva l’eco dei tre becchini che gli hanno rubato l’ultimo attimo privato, per scattarsi un selfie sulla bara aperta, perdendo il lavoro e il senso del limite. Vediamo l’enorme corona della Federcalcio argentina da 10 mila pesos e un’altra che non può sfuggire allo sguardo, perché sul nastro bianco c’è scritto “do amigo, Pelé”. La polizia teme che qualche fanatico possa profanare la tomba e prendersi la bara, non sarebbe la prima volta che accade. Per questo non si sa quando il cimitero potrà essere riaperto al pubblico, ieri non entravano neanche i parenti degli altri defunti e comunque con questo tempaccio non si è visto nessuno. I loro cari diventano coinquilini del morto indimenticabile, e poi qualcuno ci spiegherà come possiamo fare a chiamarlo morto, se lo portiamo dentro da quarant’anni. “Oh Diego no se va” hanno cantato infatti le moltitudini fuori dalla Casa Rosada e oltre queste siepi, lungamente. La strana immortalità della passione.
Quando si dice “la nuda terra": ecco, così. Maradona l’hanno calato nella fossa dove il prato scende verso il boschetto, se guardassimo più a sinistra vedremmo anche due laghetti artificiali alla fine del declivio. Sembra un campo da golf, o uno di quei posti in Florida dove i ricchi americani vanno a svernare aspettando la fine. Oppure, invece, questo è proprio il verde di un campo di calcio e adesso potrebbe essere il pomeriggio di una partita, e allora Diego è veramente a casa. La sosta è un momento, l’abbiamo promesso a Daniel. Scivola la nostra rosa. Ci sono tre lapidi di marmo bianco. Dalma Tota Franco, la prima. Don Diego Maradona, il secondo. Giovedì al tramonto è arrivato anche il loro figliolo, Dieguito, quel farabutto di ragazzo che s’è rubato il cuore del mondo e l’ha portato con sé.