Tuttolibri, 28 novembre 2020
QQAN94 Su "I vagabondi efficaci" di Fernand Deligny (Edizioni dell’asino)
QQAN94
Il leggendario finale dei 400 colpi con il ragazzino che scappa è stato ispirato a Truffaut da un suo amico, Fernand Deligny, una delle figure più visionarie della storia della pedagogia. A ottobre per le edizioni dell’asino è uscito I vagabondi efficaci e altri scritti, una antologia a cura di Luigi Monti, che scrive nell’introduzione: «Si definiva un deragliatore, uno che lavorava per far saltare i binari di quei bambini che condizioni di vita opprimenti conducevano precocemente verso riformatori, case di rieducazione e manicomi». È divisa in tre capitoli «Seme di canaglia», I «vagabondi efficaci», «La grande Cordata» più una postilla conclusiva «Diario di un educatore» e una cronologia ad opera di Sandra Alvarez de Toledo. Questi tre capitoli raccontano tre momenti dell’attività di Deligny, che si potrebbero sintetizzare in tre prese di posizione.
La prima, «nessuna sanzione», avviene prima e durante la seconda guerra mondiale nel padiglione tre del manicomio d’Armentières, riservato agli adolescenti internati. Comincia a rivoluzionarne la vita eliminando le sanzioni, attivando laboratori, sport, teatro e canto, trasformando i guardiani in educatori. Da questa esperienza trae «Semi di Canaglia» una raccolta di 134 aforismi, il cui effetto oggi alla lettura è un bagno turco per educatori. Ognuno somiglia a una vasca per mettere in guardia dalla professione, dal pericolo di pensarla una professione. Se ne esce confusi, storditi ma ripuliti da un sacco di pregiudizi, moralismi, astrattezze teoriche. Ogni parola è per una pratica che tutto si propone tranne di educare o recuperare «vagabondi inefficaci, piccolo popolo di solitari, alcuni obiettivamente rifiuti umani, altri speranza di un mondo che rischia costantemente di crepare di docilità».
La stessa abolizione delle sanzioni è una pratica. L’aforisma 72: «Impedirti di punirli ti obbligherà a occuparli». Il 133: «Se per così poco ti sei stancato di questo mestiere, non salire sulla nostra imbarcazione perché il nostro carburante è il fallimento quotidiano, le nostre vele si gonfiano di sghignazzi e noi lavoriamo sodo per tornare al porto con minuscole aringhe mentre eravamo partiti per pescare la balena».
Deligny nella vita come nell’opera non fa che smarcarsi: si smarca dalle istituzioni cercando di modificarle dall’interno, dai dogmatismi pedagogici e politici. Pur comunista da sempre si smarca dal partito, si smarca dalle lodi, dall’esaltazione della stessa educazione attiva pur condividendone le pratiche, dalla concezione idealizzante di quegli educatori che definisce le «anime belle» perché «ogni sforzo di rieducazione non sostenuto da una ricerca e da una rivolta puzza troppo rapidamente di biancheria per imbecilli o di acqua benedetta ristagnante. Ciò che vogliamo per questi ragazzi è insegnare loro a vivere, non a morire. Aiutarli, non amarli».
Le pagine del secondo capitolo sono scritte all’indomani della chiusura del centro di osservazione per minori delinquenti di Lille che Deligny fu chiamato a dirigere. La lunga lista di aneddoti si intreccia con il racconto di come era organizzato il centro. Qui la presa di posizione è: tenere la porta aperta. I ragazzi devianti sono liberi di entrare e uscire dal centro in ogni momento. La mattina possono scegliere tra diversi lavori remunerati, il pomeriggio tutte le attività creative. Come nel manicomio, Deligny agli educatori di professione preferisce ex detenuti, artigiani, disoccupati «nella convinzione che le capacità manuali, la resistenza fisica, un’estrazione sociale e culturale vicina a quella degli internati sia più efficace dei saperi tecnici e pedagogici». Quello contro la professionalizzazione del mestiere di educatore è il filo rosso che unirà tutti i suoi tentativi pedagogici: «Bisognerà, se acconsentite, liberare contestualmente i bambini e mettere accanto a loro educatori dalla presenza discreta, provocatori di gioia, sempre pronti a rimodellare la morbida argilla, vagabondi efficaci pieni di stupore per l’infanzia».
Il terzo capitolo, «la grande cordata», racconta le esperienze più sperimentali. La grande cordata è la rete sparsa in tutta la Francia in cui mandare i ragazzi «incollocabili» per un periodo di prova in vista di un inserimento in un apprendistato o la ripresa di un percorso scolastico interrotto. La grande cordata sono «militanti degli ostelli della gioventù, trotzkisti e anarchici» ma soprattutto «un areopago di amici». Qui la presa di posizione è: «niente letto, né istituto, né focolare e una rete di soggiorni di prova attraverso tutta la Francia». Ai ragazzi viene chiesto: cosa ti piacerebbe fare? E viene scelto il posto più idoneo dove mandarli in base ai loro desideri.
Per Deligny un educatore è essenzialmente «un creatore di circostanze», per le quali è necessaria una comunità. In mancanza di questa, cosa si deve fare? Qualunque cosa. Non si può certo parlare di metodo, e questa posizione non è certamente una posizione pedagogica. Tuttavia, rivela orizzonti infiniti.