Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  novembre 28 Sabato calendario

1QQAFA11 Su "Un cuore sleale" di Giancarlo De Cataldo (Einaudi)

1QQAFA11

Dici Giancarlo De Cataldo e pensi subito al Romanzo criminale (e molti altri), insomma al noir italiano di maggior successo degli ultimi anni. Però da due romanzi in qua De Cataldo ha virato al giallo, oltretutto giallo classico nella migliore tradizione: gruppo di sospettati «chiuso», ben delineato e delimitato, poca o niente violenza, false piste su cui viene continuamente dirottato il lettore e sorpresa finale (impeccabile, anticipiamo). E, ovviamente, lo Sherlock Holmes del caso.
In questo Un cuore sleale torna così, dopo Io sono il castigo, il sostituto procuratore Manrico Spinori, anzi Manrico Leopoldo Costante Severo Fruttuoso Spinori della Rocca dei conti di Albis e Santa Gioconda, in gioventù noto come Rick e attualmente come «contino», almeno per il fedele cameriere Camillo, anche badante della contessa madre svagata, affascinante e ludopatica, sottoposta a continua sorveglianza per evitare che si giochi pure gli ultimi resti del perduto patrimonio familiare. E, visto che nel giallo «all’inglese» ogni personaggio seriale si porta dietro i suoi personaggini di contorno e di colore, riecco il team delle collaboratrici del pm, Deborah Cianchetti (anzi Cianchetti Deborah, come direbbe lei, e in quell’acca «ce sta» tutto il suo mondo), Gavina Orru e Sandra Vitale. Per fortuna: era bastato un romanzo per farci venire voglia di ritrovarle.
Stavolta si investiga sulla morte in mare di Ademaro Proietti, palazzinaro romano dal patrimonio enorme come la fede laziale, precipitato o forse fatto precipitare in mare dal suo faraonico yacht al largo fra Anzio e Ostia (quindi anche con conflitti di competenze fra le procure rivierasche) mentre era circondato dall’affetto dei suoi cari, i quali si riveleranno poi assai meno affettuosi. Lui, Manrico Spinori eccetera, continua a investigare con una caparbietà nascosta da un velo di disillusione (solo chi non ha avuto molto a che fare con la giustizia può ancora crederle) e di una «sprezzatura», proprio nel senso rinascimentale della parola, consustanziale a chi si porta addosso, suo malgrado, tanti cognomi.
Per scoprire l’assassino, Spinori ha però un’arma segreta: l’opera lirica. Melomane appassionato, sa che su quei palcoscenici tutto è finto ma niente è falso, men che meno le dinamiche psicologiche e, insomma, la verità umana. Dunque, per scoprire quel particolare tipo di uomo che è l’assassino serve anche ragionare su quei casi improbabili e tuttavia «veri» serviti caldi di musica da Mozart, Verdi & co. Non so quanto Manrico sia l’alter ego di De Cataldo: di sicuro nella melomania, malattia incurabile da cui soffrono entrambi, l’autore e il suo personaggio. Infatti a un certo punto il nobilgiudice va a una prima stagionale dell’Opera di Roma. E qui la fiction smette di essere tale, perché è proprio l’ultima che si è celebrata (quanto alla prossima nell’era del Covid, chissà), quella del ’19 con i Vêpres siciliennes di Verdi, descritta in maniera perfetta, party post spettacolo compreso. Anzi, qui De Cataldo/Spinori non perde nemmeno l’occasione di prendere posizione nell’ormai annosa quindi noiosa «querelle des anciens et des modernes» che infuria sulle regie d’opera, schierandosi oltretutto dalla parte giusta, quella dei moderni. Chissà che non ci sia qualche cara salma della fazione avversa appassionata di gialli che non si converta...
Più in generale, un grande scrittore come De Cataldo non si limita a regalare al lettore un giallo impeccabile per meccanica, scrittura e descrizione d’ambienti, un mondo romano altoborghese ma sostanzialmente cafone. Sommessamente, com’è nello stile suo e del suo pm, lancia frecce sottili ma per questo ancora più acuminate contro l’horror che ci circonda, la violenza verbale e la miseria intellettuale dei social, il giustizialismo isterico, i processi celebrati dai media invece che nei tribunali, la volgarità di modi e mode. Rivendicare il valore e magari pure la bellezza delle infinite tonalità di grigio in un mondo che vede solo il bianco e il nero non è poco. L’understatement, l’ironia, la signorilità diventano allora una forma di resistenza al Grande Chiasso che ci assedia, un argine precario ma prezioso alle colate di guano che tracimano ovunque, un piccolo spazio personale di sopravvivenza nella gara a chi urla più forte, e generalmente delle sciocchezze. Come quando Spinori si chiude nel suo studio, indossa un vecchio kimono e si abbandona alla bellezza di un’opera lirica (le Bassaridi di Henze, poi...).