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 2020  novembre 28 Sabato calendario

Massimo Donà spiega John Lennon

Suona la tromba, realizza dischi, scrive libri, insegna filosofia al San Raffaele a Milano. I Beatles un po’ gli hanno cambiato la vita. E lo ha raccontato in un libro, qualche anno fa ( La filosofia dei Beatles, edito da Mimesis). Massimo Donà, allievo di Emanuele Severino e di Enrico Rava, ritiene che il celebre quartetto abbia svolto un ruolo rivoluzionario «non meno importante di quello che nel Novecento era già stato occupato da artisti come Schoenberg e Stravinsky, Picasso e Duchamp, o da filosofi come Heidegger e Deleuze».
Magari potevi aggiungerci Miles Davis e John Coltrane, visto che una delle tue occupazioni è il jazz.
«Negli anni del liceo ero un chitarrista rock. Poi mio fratello, più grande di un paio d’anni, mi convinse ad ascoltare un po’ di jazz. Cominciai a innamorarmi perdutamente di questa musica. E a suonarla. La filosofia, in un certo senso, ti costringe ad essere libero. Il jazz ti libera da ogni costrizione».
C’è una relazione tra il jazz e i Beatles?
«Sono numerosi gli arrangiamenti jazz delle canzoni dei Beatles. Come pure sono evidenti le influenze jazz che il quartetto ha subito. Penso ad alcuni brani, per esempio a I Want You che chiude la prima facciata di Abbey Road e a When I’m Sixty Four, dove è presente anche un clarinetto. Sia i Beatles che il jazz hanno modificato il nostro modo di pensare la musica, utilizzando in modo libero e sorprendente l’eredità del passato».
Che posto occupa John Lennon in tutto questo?
«Incarna l’anima più radicalmente primitiva del gruppo. È acido, pungente. Ironico ma anche tragico.
Le sue composizioni sono spigolose e dolcissime, irregolari ma con un tocco di perfezione armonica e ritmica. Evoca abissi felicemente onirici e prorompenti impulsi letterari».
Dei quattro è il più fragile e tormentato.
«C’è un’inquietudine che trasmette a un’opera che è anche specchio fedele della propria malinconia, del proprio non riuscire ad abitare ( Nowhere Man) se non nell’immaginazione dei suoi numerosi e fedeli ascoltatori».
Questa malinconia a cui alludi era anche un’eredità dell’infanzia?
«Penso di sì. Sono convinto che l’infanzia di Lennon abbia deciso il carattere della sua musica. Visse una fase molto complicata. Quando i genitori si separarono, quasi subito, John andò a vivere con la zia. Nelle sue canzoni si accenna ai trasferimenti continui, alle feste nel parco dell’orfanotrofio, come si allude in Strawberry Fields Forever, al suo pesante destino di solitudine, alla presenza fantasmatica e più che altro agognata della madre che di fatto ispirerà una delle sue canzoni più belle: Julia. Poteva rimanere uno sfigato, perfetto per un film di Ken Loach. Invece, attraverso il sogno, Lennon costruì un bellissimo mondo alternativo».
Un mondo anche ricco di suggestioni letterarie.
«Era rimasto folgorato dalla scrittura di Lewis Carroll e la cosa che più lo intrigava era entrare nello specchio, come Alice».
Un gesto o un’esigenza che egli arricchì con la cultura psichedelica. Che ruolo ebbero le droghe?
«Fondamentale, ma direi per tutta la sua generazione. Bob Dylan iniziò i Fab Four all’uso della marijuana e poi, soprattutto Lennon e Harrison, cominciarono a sperimentare gli effetti dell’acido lisergico. In Lucy In the Sky With Diamonds, una delle sue più belle canzoni, le iniziali che compongono il titolo indicano chiaramente l’LSD, la droga più diffusa verso la fine degli anni Sessanta. Farsi di acido significava coniugare immaginazione e libertà. Sono diversi i brani di Lennon, soprattutto negli album Revolver e 


Sgt Pepper’s che risentono, sia nella musica che nelle parole, degli effetti di queste sostanze. La stessa

Strawberry Fields Forever è un piccolo capolavoro psichedelico».
È questo retroterra di cultura alternativa che spingerà i Beatles in India?
«La questione è più controversa. Il viaggio in India fu in un certo senso l’inizio della loro fine. Il gruppo era stremato da una vita continuamente impegnata in tournée, apparizioni televisive, bagni di folla. Quel viaggio avrebbe dovuto restituire loro quella pace di cui avevano dimenticato il sapore. Partirono nel 1968 per raggiungere Maharishi Mahesh Yogi e sottoporsi alla meditazione trascendentale. Fu un evento mediatico incredibile. Il "pellegrinaggio" si arricchì di altre presenze, tra cui Mick Jagger e Marianne Faithfull. Sembrava che il rock si stesse convertendo al buddismo. Nell’ashram di Maharishi in quel periodo si potevano incontrare Mia Farrow e Donovan. Il Gange ormai bagnava Londra».
Perché dici che fu l’inizio della fine?
«Il gruppo aveva cominciato a sgretolarsi. Ma la cosa incredibile è che da quella esperienza nacque un doppio album straordinario, il cosiddetto White Album che fu un’esplosione disseminatrice di suoni. Forse la tanto agognata liberazione spirituale, di cui quel viaggio rappresentava il disperato bisogno, trovò in quel disco la piena realizzazione».
Ancora oggi si sostiene che Yoko Ono fu alla base della rottura del gruppo.
«È una questione dibattuta, ma penso che al massimo sia stata una causa concomitante. I Beatles erano già da tempo avviati alla disgregazione. Yoko era dotata di una fortissima personalità e per il fatto di essere la nuova compagna di Lennon fu vista dagli altri Beatles come una presenza ingombrante, vissuta con fastidio».
Pensi che la sua personalità abbia condizionato Lennon?
«Un’influenza sicuramente c’è stata. Yoko ha rappresentato un nuovo inizio. Uno sguardo più consapevole sul valore sociale e politico delle forme di espressione artistica. È come se gli avesse dato una nuova coscienza estetica. E avesse stimolato curiosità sconosciute. Nella loro casa capitavano spesso personaggi come Miles Davis e Andy Warhol».
Si dice che "Imagine" sia la canzone del Novecento. Ti convince?
«Beh, diciamo che è stata composta nel momento giusto e arrangiata in modo perfetto. Anche a livello simbolico riassume il meglio di quanto accaduto nel mondo alla fine degli anni Sessanta. Una vera canzone emblema. Semplicissima, oltre che nel testo, da un punto di vista armonico-melodico. Ma nello stesso tempo unica, inimitabile e molto probabilmente irripetibile. E quindi, in verità, vertiginosamente complessa. Il frutto maturo di una grande musicista».
C’è chi ha paragonato Lennon a una specie di Debussy contemporaneo.
«Fu George Martin, il geniale produttore e arrangiatore dei Beatles, a definirlo così. Credo che pensasse alla capacità tipica di Debussy, riscontrabile anche nella musica scritta da Lennon, di dare voce al vero e proprio dissolversi della forma, al suo liquefarsi e trasfigurarsi nel magma di una pura e semplice emozione».
A parte certe assonanze, si riscontra sia in Lennon che in McCartney una grande attenzione per la musica contemporanea.
«Paul prima ancora di John. Entrambi erano rimasti folgorati da tutte le forme di sperimentazione che avevano squassato il mondo dell’arte contemporanea. Ascoltavano con grande interesse le forme musicali più estreme dell’epoca. Tanto da importare anche nelle loro canzoni accorgimenti tecnici che avrebbero potuto essere tranquillamente utilizzati da Cage o da Stockhausen. Si tratta di un repertorio di rumori, voci disturbanti, strumenti inediti mai usati prima nella musica popolare, nastri fatti suonare a rovescio.
Effetti stridenti e cacofonie degne della più radicale "musica concreta". Pensa solo a Rain, Tomorrow Never Knows, A Day in the Life: sono solo alcuni esempi di sperimentazione in atto».
Da un punto di vista musicale chi è stato più innovativo tra Lennon e McCartney?
«Non è facile rispondere. Secondo me, dal punto di vista melodico-armonico, il più raffinato era Paul. Ma il più coraggioso, capace di sorprendere, osare e soprattutto innovare, anche con soluzioni spigolose e apparentemente "improprie", è stato sicuramente John».
Quando nel 1970 il gruppo si divise, ciascuno prese la sua strada. Fu un bene o un male per la storia musicale?
«Chi può dirlo? Secondo me i quattro ragazzi di Liverpool sono sempre rimasti i "Beatles". Va riconosciuto che la loro produzione solistica è rimasta eccellente anche dopo che si sciolsero».
Mi ha sempre incuriosito la figura di George Harrison, rimasta a lungo in ombra: solo dopo lo scioglimento del gruppo si è vista la sua qualità.
«Basti qui rammentare My Sweet Lord per capire che George è stato geniale quasi quanto Paul e John.
Credo che abbia sofferto molto l’ingombrante dominio dei due amici, restando schiacciato dalla coppia che firmava quasi tutte le composizioni.
Maturò, musicalmente, più tardi. Alcune sue composizioni furono scartate e fanno parte di quel materiale accumulato che gli consentì di iniziare una carriera da solista con un pregevole album triplo: All Things Must Pass ».
Sulla morte violenta di Lennon sono state scritte migliaia di pagine. Che idea ti sei fatto?
«Forse si è scritto troppo. Ma accade ogni qualvolta sta per nascere una leggenda. È stato così anche per Elvis Presley. Chi non muore di vecchiaia può aspirare a un biglietto per l’eternità. Non è detto che venga riconosciuto. Ma tanto per cominciare si mette in fila.
Nel caso di Lennon è accaduto. Quella morte sembrava, oltretutto, avvenire sul set di un film: New York, il Dakota Building, famoso per i personaggi che vi abitavano, e poi Mark David Chapman, l’omicida con la delirante pretesa di farsi illuminare dalla stessa luce del suo idolo».
Il fan deluso che gira con "Il giovane Holden" nella tasca.
«Dettaglio non irrilevante. Quasi che la letteratura, in questo caso Salinger, potesse rivelare le segrete motivazioni dell’orrore. Quel gesto violento e definitivo, i colpi di pistola sparati alle spalle di Lennon, mi fanno venire in mente la volontà cannibalica di cibarsi del corpo del nemico per impossessarsi della sua anima. Siamo in piena tragedia arcaica e dunque a un passo dal mito. Che poi si è realizzato nel racconto che è andato oltre il tempo che lo ha generato».