Con questo allestimento il Teatro del Maggio fiorentino gioca l’ultima carta prima di una chiusura che si preannuncia lunga. Il sovrintendente Alexander Pereira annuncia che non riaprirà — anche se il governo lo permettesse — finché non sarà consentito riempire perlomeno la metà della sala, i costi di gestione sarebbero insostenibili. Questo Otello va in scena una sola volta, dopodomani alle 21.15, per gli spettatori di Rai 5. Sul podio Zubin Mehta, regia Valerio Binasco, protagonisti anche Fabio Sartori e Marina Rebeka.
Maestro Salsi, mettere su un’operona del genere in tempo di pandemia quali precauzioni ha comportato durante le prove?
«Di continuo siamo stati sottoposti a test rapidi. Tutti abbiamo sempre lavorato in mascherina e il coro, compreso quello dei bambini, non la toglierà neppure durante la recita. Ma per noi solisti aver la bocca coperta è una sofferenza: la gola diventa secca, si rischia di rovinare le corde vocali».
La impensierisce cantare per delle poltrone vuote?
«Adesso non possiamo far altro che affidarci allo streaming se vogliamo che il teatro resti vivo. Ma non potrà diventare una consuetudine perché allora sì che il nostro mondo morirà.
Innanzitutto è impensabile produrre un allestimento lirico solo per la diretta di una sera. In più, alla lunga, fissare uno schermo stufa: il pubblico ha bisogno del buio attorno per concentrarsi e di sfogarsi nell’applauso. Però, riguardo alla tv, c’è qualcosa che non mi quadra di certi programmi».
Cosa non le torna?
«I due pesi e due misure che permettono, per esempio, ai talent di avere spettatori in studio, e a noi no. Non sarà che al ministero pensano che lo spettacolo dal vivo costa troppo ed è bene limitarlo il più possibile? D’altronde i lavoratori teatrali sono stati abbandonati a se stessi dal governo. Quest’anno ho perso 52 recite con cui avrei dovuto mandare avanti la famiglia, e quel che ho ottenuto per ristoro è solo un prestito bancario garantito dallo Stato che comunque dovrò restituire interamente».
Torniamo a "Otello". Binasco non lo vuole nero…
«Eppure è moro. Jago lo descrive, con disprezzo, come "selvaggio dalle gonfie labbra". Mitigarne l’aspetto razzista per convenienza al politicamente corretto è negare il fatto che qui non stiamo discutendo di cronaca o vita reale: stiamo facendo teatro, che è un spazio al di là di quanto si possa considerare bene o male».
Perciò il suo sarà uno Jago più perfido del solito?
«Lui è il vero protagonista dell’opera. Se Verdi tornasse indietro la intitolerebbe a suo nome. È una parte di notevole difficoltà vocale, va dal fortissimo più crudo al pianissimissimo più mellifluo. E ogni parola va intagliata».
Questo glielo ha di certo insegnato Riccardo Muti, di cui lei è da tempo il baritono prediletto.
«Muti ha modellato il mio modo di cantare. Da lui ho appreso che la scrittura verdiana è sempre nobile, che il rapporto inscindibile tra parola e nota è carico di continua tensione teatrale. Incontrarlo è stata la mia fortuna. Ma ho avuto pure il privilegio di trovare un maestro di canto eccezionale in Carlo Meliciani, che a 92 anni ancora mi segue, e di poter collaborare con direttori che passeranno alla storia. Come Mehta. Che nel quarto atto di Otello , quando non canto, mi siedo a osservare dietro le quinte».
E cosa la colpisce in lui?
«La commozione nei suoi occhi. Allora penso: accidenti, dopo una vita su queste note, ancora si intenerisce così. E intuisco che nel luccicare di quegli occhi sta la certezza che, nonostante tutto, il teatro non potrà mai morire».