Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  novembre 28 Sabato calendario

La sentenza sull’uccisione di Mauro Rostagno

Mauro Rostagno è stato ammazzato dalla mafia, ma non si sa chi gli ha sparato. Il suo omicidio è ormai un pezzo di storia d’Italia e della Sicilia inquinata e insanguinata da Cosa nostra – non fosse che per il tempo trascorso: trentadue anni – ma il verdetto sugli imputati condannati o scagionati è ancora cronaca. Ieri la Corte di cassazione ha confermato la sentenza d’appello del febbraio 2018: ergastolo per il capomafia di Trapani Vincenzo Virga, mandante del delitto; assoluzione per il sottocapo Vito Mazzara, presunto killer. E capitolo chiuso.
Per Maddalena Rostagno, figlia quarantasettenne del sociologo torinese laureato a Trento nella facoltà di Sociologia antesignana del ’68 che scelse di vivere in Sicilia tra una comunità terapeutica e la tv privata dove faceva il giornalista, è una vittoria a metà: «È importante che sia stata riconosciuta la matrice mafiosa, così mio figlio di 17 anni non dovrà più leggere che suo nonno che non ha mai conosciuto, e questo resterà sempre il mio dolore più grande, è stato eliminato da chissà chi e chissà perché. Però con la sentenza che aveva riconosciuto la colpevolezza anche del presunto assassino avevo riacquistato fiducia nella giustizia. Ho ascoltato periti preparati e credibili spiegare con chiarezza come al 99 per cento quell’uomo aveva sparato a mio padre». I giudici di primo grado la pensarono allo stesso modo, quelli d’appello no, e adesso la Cassazione ha stabilito che non ci furono errori. Verdetto definitivo.
«Mi sembra una giustizia non sufficientemente coraggiosa – prosegue Maddalena Rostagno —, e io stasera non me la sento di brindare. Quell’omicidio è accaduto quando avevo 15 anni e mi ha stravolto la vita; è successo di tutto, mia madre è finita in galera con l’accusa di aver favorito gli assassini di papà... (inchiesta abortita in un errore giudiziario, ndr). Non si tratta di pretendere un ergastolo in più (peraltro Mazzara resta sepolto in galera da altre condanne a vita, ndr), io sono pure contraria all’ergastolo, ma anche quando i processi vanno bene resta sempre fuori un pezzettino...». E il sigillo sul delitto di mafia, conclude la figlia, restituisce pure dignità a Rostagno: «Non era uno sfigato che non si rendeva conto di ciò che gli accadeva intorno, tradito dai compagni, dalla moglie o dai tossici; era uno che ha deciso di giocarsi la vita per raccontare ciò che accadeva sul suo territorio, denunciare il potere mafioso e le connivenze che lo sostenevano. Non è stato un martire, ma un uomo consapevole di quello che stava facendo e anche di quello che rischiava».
Anche l’avvocato di Maddalena, Fausto Maria Amato, si rammarica per «il vuoto che resta sugli esecutori materiali». Ma i processi hanno dimostrato il movente: «È emerso come Cosa nostra avesse più di un motivo, e uno più valido dell’altro, per volere la morte di Rostagno». C’era «il bisogno di mettere a tacere per sempre quella voce che come un tarlo insidiava e minava la sicurezza degli affari (illeciti) e le trame collusive delle cosche con altri ambienti di potere, accomunati dalla pretesa di affrancarsi dal rispetto della legalità e creare un proprio ordine». Di qui il sospetto che anche le «sconcertanti anomalie, le gravi negligenze nelle prime indagini e le misteriose sparizioni» di indizi (tra cui un verbale dello stesso Rostagno sui rapporti tra mafia, massoneria e politica, sottoscritto sette mesi prima di morire) non fossero errori bensì depistaggi. Per esempio il testimone che sentì gli spari e raccontò subito che Rostagno parlava in tv di «rapporti tra mafia e politica, a Trapani lo sapevano tutti», ridotto a fonte anonima e ascoltato per la prima volta dai magistrati a 25 anni dai fatti; o «la scena del crimine inquinata da devastanti imperizie che hanno finito per propiziare i più subdoli interventi manipolativi». Fino all’inquietante conclusione: «I vertici dell’organizzazione mafiosa ben potevano presumere di poter contare, se non su un’attiva complicità, quanto meno su una proficua acquiescenza degli apparati repressivi e di sicurezza dello Stato».
La Corte d’assise segnalò dieci presunte false testimonianze per le quali è in corso un processo ad altrettanti imputati, tra cui un carabiniere e un finanziere in pensione. «Sono passati 32 anni, due mesi e un giorno, ma alla fine Mauro ha ottenuto giustizia – commenta Chicca Roveri, moglie di Rostagno e madre di Maddalena —. A ucciderlo è stata la mafia, la stessa che ancora comanda. Ma quanta fatica e quanto dolore per arrivare a una verità da subito evidente. Alla domanda se credo nella giustizia, che di solito si pone ai familiari delle vittime, preferisco rispondere citando Dante: “E qui chinò la fronte e più non disse, e rimase turbato”».