Corriere della Sera, 6 gennaio 2011
Un giudizio su Reza Pahlavi
Lo spunto, tragico, è il suicidio, avvenuto a Boston negli scorsi giorni, di Alireza Pahlavi, il secondogenito dell’ultimo scià di Persia. Aveva 44 anni. Ho letto parecchi libri sull’Iran e ho vissuto a lungo in quel Paese, e mi sembra che la figura di Mohammad Reza Pahlavi sia una delle più misconosciute e sottovalutate. Giornalisti e storici di pessima preparazione e di penna facile (Kapuscinski «in primis») lo liquidano come un oppressore, quando la realtà dei fatti parla di una persona che amava profondamente il suo Paese per il quale diede inizio a un’opera di modernizzazione che non ha il minimo riscontro in tutto il Medio Oriente. Che cosa ne pensa e, più in generale, perché la realtà dei fatti di allora viene ancora oggi così spesso prevaricata dalle opinioni qualunquiste e «buoniste»? Marcello Mion marcello.mion@ nsn.com
Caro Mion, Reza Pahlavi, scià dell’Iran dal 1941 al 1979, raccolse l’eredità del padre e appartiene con lui senza dubbio a quel gruppo di modernizzatori islamici di cui i maggiori esponenti furono Mohammed Ali, fondatore del- l’Egitto moderno, e Kemal Atatürk, creatore della Repubblica turca. Ma temo che di quegli uomini avesse le ambizioni senza averne il carattere. Come Farouk, re d’Egitto e fratello della sua prima moglie, amava la vita mondana, la teatralità della corte, le feste sfarzose, i soggiorni nelle loca lità turistiche europee. Si con siderava il legittimo discen dente degli imperatori persiani e nel 1971 profuse fiumi di dollari nelle grandi feste che dovevano celebrare Ciro il Grande e la fondazione della monarchia 2500 anni prima. Il suo regime, paradossalmente, fu stroncato da una torrenziale alluvione di dena ro. Quando il prezzo del petrolio, dopo la guerra del Kippur, cominciò ad aumentare verti ginosamente, l’Iran, come altri Paesi del Golfo, divenne prodigiosamente ricco. Ambi zioso e imprudente, lo scià de cise che avrebbe modernizzato il Paese a passo di carica. In una intervista al settimanale tedesco Spiegel del gennaio 1974, disse che gli iraniani, en- tro dieci anni, avrebbero avu to lo stesso tenore di vita di tedeschi, francesi, inglesi. Nel suo bel libro sulla rivoluzione iraniana (mi spiace ch lei non lo abbia apprezzato) Ryszard Kapuscinski racconta che Re za Pahlavi fu colto da una sorta di follia acquisitiva. Ordinò di raddoppiare gli investimen ti, di intensificare la costruzio ne delle infrastrutture, di incrementare le spese militari e di importare prodotti d’alta tecnologia. Incidentalmente erano gli anni in cui lo scià poteva contare sulla consulenza di Vittorio Emanuele di Savoia, figlio di Umberto e padre di Emanuele Filiberto: una circo stanza che non depone a favore del suo discernimento. Le intenzioni erano nobili, ma questa massa di denaro, gettata su un Paese sottosviluppato, ebbe soprattutto l’effetto di creare corruzione, in- flazione, affarismo, aumento della popolazione urbana, sra dicamento sociale: tutti gli in gredienti, insomma, di un ma lumore popolare che il sovra no cercò di soffocare con la Sa vak, una delle più brutali polizie segrete del Medio Oriente. Il malessere dette un’occasione di rivincita al clero sciita che i Pahlavi avevano duramente controllato e represso, ma non vi sarebbe stata una rivoluzione, probabilmente, se la politica economica dello scià non avesse allarmato i mercanti del bazar, un ceto so ciale che ha tuttora una consi derevole influenza sulla politica del Paese. Per concludere, caro Mion, Reza Pahlavi perdette il potere per un eccesso di denaro: un caso pressoché unico nella storia delle rivoluzioni del Novecento