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 2020  novembre 27 Venerdì calendario

Intervista a Antonio Bassolino

Tra i sogni ricorrenti di Antonio Bassolino non c’è uno che rimandi alle diciannove inchieste della magistratura a suo carico che si sono concluse con altrettante assoluzioni. C’è però Napoli, la Napoli del 1993, quella che si apprestava ad averlo sindaco per la prima volta. Anche se nessuno, né lui né Napoli, poteva immaginarlo, all’alba di quell’estate tremenda. «La situazione in città era gravissima. Con problemi che, più che di ordine pubblico, potevano definirsi di ordine civile. Il latte locale aveva un colore strano, l’acqua non c’era quasi mai, la città era buia, senza illuminazioni. Io ero nella segreteria nazionale del Pds e Achille Occhetto mi aveva mandato a fare il commissario del partito nella mia città, dove eravamo crollati all’8 per cento. Tangentopoli aveva travolto la Dc e il Psi ma aveva sfiorato anche i nostri. Inizio a fare una battaglia per lo scioglimento del consiglio comunale, non erano più in grado di reggere un dramma del genere. E lo scioglimento arriva, firmato dal ministro dell’Interno Nicola Mancino proprio per ragioni, come dicevo prima, quasi di ordine civile. Era arrivata l’elezione diretta dei sindaci ed era chiaro a tutti che lo sbocco di quella crisi sarebbe stato radicale. A destra o sinistra, ma radicale».
«A destra viene fuori la candidatura di Alessandra Mussolini, molto forte; io inizio a guardarmi attorno per cercare uno sfidante che fosse all’altezza di quella battaglia, poi il partito chiede a me di fare il grande passo. Quella campagna elettorale torna ancora oggi nei miei sogni, come le settimane della maturità classica. La mattina presto ai cancelli delle fabbriche, poi arriva l’ora di andare ai mercati, il pomeriggio in giro per la città e la sera, ogni sera, nelle case della borghesia, a parlare con venti, trenta, quaranta persone alla volta. Andavo a letto alle due e mezza, poco dopo suonava la sveglia per ricominciare daccapo, dalle fabbriche».
Il «rinascimento napoletano» degli Anni Novanta, griffato Antonio Bassolino, è una storia che rivive oggi. Un mito rinverdito dalla diciannovesima assoluzione su diciannove inchieste, che ripulisce dal fango l’immagine dell’uomo che è stato per vent’anni un protagonista assoluto della scena politica nazionale, oltre che della sinistra. Una vicenda umana e politica a cui non è stata scritta la parola «fine».Chiunque leggerà questa intervista arriverà alla conclusione che non è sicuro che Bassolino si candidi di nuovo a fare il sindaco di Napoli, l’anno prossimo; ma che questa eventualità non la si può neanche escludere. La diciannovesima assoluzione è quella che ha fatto più rumore. «Davvero una quantità di messaggi e di dimostrazioni di affetto che non avrei mai potuto prevedere».
La politica è strana. E lei dovrebbe saperlo, visto che l’ha incontrata da ragazzo.«Più che da ragazzo, da bambino. Nel palazzo dove abitavamo, ad Afragola, c’era una sezione del Pci. Sezione “Antonio Gramsci”. I compagni che la frequentavano erano soprattutto braccianti agricoli, operai edili, metalmeccanici dell’Italsider e delle tante industrie che erano sorte attorno al porto di Napoli».
Come arrivò a frequentarla?«All’inizio andavo a giocare a calciobalilla, perché là dentro avevano il biliardino. Poi un compagno mi diede una copia di Lettere dal carcere di Gramsci. Andavo alle elementari, quella lettura mi turbò tantissimo. A quindici anni mi iscrivo alla Federazione giovanile comunista, prima tessera nel 1962. La mattina presto, prima di andare al ginnasio a Napoli, ero al fianco dei braccianti per vedere da vicino il mercato delle braccia. Il caporale testava il polso e i muscoli dei lavoratori, poi sceglieva quelli da portare nei campi. Una forma di schiavismo a cui solo l’approvazione della legge sul collocamento agricolo, arrivata dopo anni di lotte della classe bracciantile, avrebbe inferto un duro colpo. Erano gli anni delle grandi liti con mio papà, che era un lavoratore ma votava Partito liberale... A sedici anni divento il segretario della sezione Pci di Afragola».
Scusi, del movimento giovanile?
«No, no. Del partito vero e proprio. Teoricamente non potevo neanche essere iscritto; praticamente ero diventato il segretario. Dalla sezione avevano chiesto una deroga alla federazione provinciale e l’avevano ottenuta. Il mio primo comizio, estate 1964, è al fianco di Giorgio Napolitano, segretario del Pci di Napoli. Era il comizio finale di una manifestazione contro l’invasione del Vietnam da parte degli Stati Uniti. I comizi sono stati fondamentali anche per la mia vita personale».
Perché?
«Per sconfiggere la balbuzie con cui combattevo da quando ero bambino. Ho esultato per l’elezione di Joe Biden a presidente degli Stati Uniti, oltre che per l’ovvia considerazione che si trattava del candidato democratico contro Donald Trump, perché anche Biden ha combattuto la balbuzie. La mia derivava da una timidezza esasperata, che mi accompagnava da bambino. Parlando ai comizi, di fronte a folle che a volte erano composte da decine e decine di migliaia di persone, di cui dovevi capire la storia solo guardandole negli occhi, stando al fianco di mostri sacri come Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao, non ho mai balbettato. Ho balbettato e un po’ balbetto ancora se parlo faccia a faccia con un’altra persona. A un comizio, mai».
Da chi ha imparato a fare comizi?
«Soprattutto da Ingrao. Forse il più grande oratore che la politica italiana del Novecento abbia conosciuto. L’avevo conosciuto sostenendo le sue tesi all’undicesimo congresso del Partito comunista del 1966».
Il primo dopo la morte di Togliatti, quello in cui la sinistra di Ingrao sfidava l’area di un suo grande conterraneo, Giorgio Amendola.
«Proprio una discussione con Amendola, qualche tempo dopo, mi avrebbe cambiato la vita. Era il 1970, pochi mesi dopo essere stato eletto consigliere alle prime elezioni regionali. Ero quasi completamente concentrato sulla questione operaia perché quelli erano soprattutto anni di mobilitazioni operaie, dall’Italsider di Bagnoli all’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco. “Devi finirla di fare l’operaista!”, mi dice un giorno Amendola. E aggiunge: “Ma tu lo sai che cos’è il nocelleto specializzato di prima fascia?. Ti farebbe bene andare in mezzo ai contadini dell’Irpinia a conoscere i loro problemi, le loro lotte”. “Quando vuoi, ci vado”, rispondo. Finisco alla Federazione di Avellino, prima funzionario, poi segretario per cinque anni».
Perfetto esempio delcursus honorumche si faceva nei partiti.
«Nel 1972 Berlinguer mi aveva voluto nel comitato centrale del Pci. Nel 1976 divento il segretario regionale della Campania, a neanche trent’anni, ricoprendo una carica che prima di me era stata ricoperta da dirigenti del calibro di Giorgio Amendola, Gerardo Chiaromonte, Abdon Alinovi. Tre anni dopo entro nella Direzione nazionale del partito, che aveva solo ventuno componenti. Prendevo posto, nella sala di Botteghe Oscure, tra Umberto Terracini e Paolo Bufalini. Per anni l’ho considerato l’onore più grande in cui mi potessi imbattere».
Fino al 1993, l’anno in lei cui viene eletto sindaco di Napoli.
«Ero nella segreteria nazionale del Pds. Mi trovavo in ospedale per un piccolo intervento chirurgico quando ricevo la telefonata di Achille Occhetto, che mi chiede di andare a fare il commissario del partito a Napoli. Tornavo in una città martoriata, che non era la stessa da cui ero andato via».
Il latte di colore diverso, l’acqua che non c’è, le illuminazioni spente. Poi il «rinascimento napoletano», la sua politica del «passo dopo passo», la città che risorge. E oggi?
«Il coronavirus rappresenta uno spartiacque nella storia della città. Perché tutti sono pienamente dentro questo dramma. Io guardo la città camminando per i quartieri, correndo, prendendo l’autobus, la metro, parlando con le persone. Ho messo l’orecchio a terra. La fila alla mensa dei poveri è aumentata. Alla disperazione sociale di chi non sa dove sbattere la testa s’è unita l’esasperazione sociale di chi un lavoro ce l’avrebbe pure, anche se di fatto è fermo: i ristoratori, i proprietari dei bar, i tassisti. La disperazione sociale di chi sta sotto la soglia di povertà, l’esasperazione sociale del ceto medio».
Il sindaco de Magistris e il governatore regionale De Luca litigano tra loro. Entrambi litigano col governo.
«La collaborazione tra istituzioni è doverosa anche in tempi normali. In momenti come questo, però, quella collaborazione non è soltanto materia di dibattito tra addetti ai lavori. È la gente comune che la chiede, che la pretende».
E poi c’è lei, Bassolino. Che cosa ci fa col suo orecchio a terra? L’anno prossimo si sceglierà un nuovo sindaco.
«Io le dico questo. Che ciascuno deve fare la sua parte, dalle istituzioni al cittadino. Io faccio la mia da cittadino, adesso. Poi che modi e che forme prenderà l’impegno di ciascuno, ecco, avremo tempo e modo per vederlo, per stabilirlo».
Quando sogna, lei sogna la campagna elettorale del ‘93, però. È un segnale.
«Vede, a volte sogno le settimane che mi separavano dagli esami di maturità, che furono molto simili per impegno alla campagna elettorale del ‘93. La mattina coi braccianti, poi coi lavoratori del porto, poi a volantinare davanti alla fabbriche insieme agli operai e la notte studiavo. Poche ore dopo suonava la sveglia, ed era già ora di stare al fianco dei braccianti».