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 2020  novembre 27 Venerdì calendario

Si deve difendere un femminicida?

L’ennesimo orrendo femminicidio. Ancora orfani della mamma, vittime a causa della violenza assassina del padre. Ma ciò che c’è di nuovo e scuote la coscienza di chiunque è che l’avvocato, chiamato a difendere l’assassino, rifiuta di assisterlo. L’avvocato è una donna e dice di avere sempre combattuto per l’affermazione dei diritti delle donne e di avere sempre difeso le donne dalla violenza maschile.
Con coerenza, lealtà e coraggio ha quindi dichiarato apertamente la propria impossibilità di fare qualcosa contro il proprio pensiero e la propria vita professionale. Io la capisco.
Non so se chiunque potrà considerare giusta una decisione come questa. Non lo so perché anche io, a suo tempo, ho preso la stessa decisione e ancora oggi, dopo oltre trentacinque anni, non ho capito se, deontologicamente, la mia posizione fosse giusta.
Ho cominciato a lavorare nel 1982 e il mio sogno era diventare avvocato penalista, perché lo scenario del diritto penale mi è sempre piaciuto più di quello civile. Nel processo penale le indagini, l’istruttoria e il dibattimento sono ricchi di colori, di colpi di scena, di approfondimenti e soprattutto di tanti momenti nei quali la parola ha molta più importanza dello scritto. E a me è sempre piaciuto parlare. L’avvocato penalista è sempre in prima linea e gioca tutta la propria passione per la professione e per la giustizia, soprattutto nell’arringa finale, ma anche in altri momenti fondamentali. Per questo avevo scelto di dedicarmi al diritto penale, e anche perché in questa materia il professor Pisapia mi aveva riconosciuto un bel 30 e lode, mentre nel civile il professor Trimarchi si era limitato a un malinconico 27. Ho vissuto quindi un anno bellissimo, praticamente stando in pretura, allora esistevano i pretori, dove ogni giorno spesso gratis e qualche volta cominciando a farmi pagare, difendevo ogni genere di piccoli delinquenti, inanellando anche una serie di vittorie non del tutto scontate. Dopo circa un anno mi è capitato, però, di essere nominata difensore d’ufficio di un ragazzo di 38 anni indagato per avere ucciso il suo compagno omosessuale che, a suo dire, lo aveva aggredito, nottetempo per gelosia.
Sono stata in carcere con il pm che stava indagando su di lui e l’ho poi interrogato, da sola senza magistrato, per oltre un’ora, anche se dopo dieci minuti ero assolutamente convinta, malgrado la sua negazione disperata, che lo avesse ucciso crudelmente e volutamente. Quella sera, di ritorno dal carcere, ha totalmente cambiato la mia vita facendomi poi diventare quella che sono oggi, anche se i problemi di coscienza ci sono lo stesso. Ero, però, allora davvero sconvolta di dover difendere un assassino. Pur consapevole che la difesa è un diritto inviolabile garantito dalla Costituzione, e quindi certa che il mio dovere di avvocato, deontologicamente, fosse quello di difendere un imputato indipendentemente dall’essere veramente colpevole o no, non riuscivo passo dopo passo a rientrare in questo ordine di idee. Mi domandavo se fosse giusto. Anzi mi domandavo se fosse giusto abbandonare un assassino a se stesso o se dovesse essere mio dovere cercare quanto meno le motivazioni autentiche dell’omicidio e le eventuali attenuanti per difenderlo al meglio. Mi domandavo se mi stessi rivelando vigliacca, incapace, stupida, immatura. Mi domandavo soprattutto se da avvocato fosse giusto da parte mia derubare il ruolo di giudice e condannare subito, senza contraddittorio, un imputato non ancora processato. Nel pensare di rinunciare all’incarico di assisterlo, venivo inondata da un grande senso di colpa perché ricordavo il gesto di mio padre pochi anni prima. Renato Curcio, il terrorista, doveva essere assistito in un processo nel quale tutti gli avvocati d’ufficio si erano defilati e il Consiglio dell’Ordine di Milano stava per decidere di precettarne uno; quando mio padre, pur essendo di tutt’altro colore politico del brigatista, si offrì spontaneamente, per onorare la Costituzione, e non lasciare quell’uomo abbandonato a se stesso. Tra l’altro era stato poi un periodo difficilissimo per tutta la famiglia, perché tutti eravamo stati messi sotto scorta, in forza delle minacce di colore politico che mio padre aveva ricevuto.
Avevo considerato mio padre un eroe e ora che mi trovavo in una situazione molto simile, ma per nulla paragonabile, in quanto a problemi di coscienza d’avvocato, mi dimostravo così preoccupata, traballante, recalcitrante nel fare il mio dovere. Insomma, alla fine decisi di non assumere quella difesa, di abbandonare le aule penali e di dedicarmi esclusivamente al diritto civile. Ancora oggi, tuttavia, non so se assolvermi o no. Non l’ho capito. Però riconosco la lealtà e la purezza della collega di Pordenone che ha avuto il coraggio di dichiarare al mondo che non difende l’assassino di una donna, perché lei ha sempre combattuto per far valere i diritti delle donne. Sarà difficile il ruolo di chi sostituirà questa avvocatessa. Non credo, infatti, che ci siano avvocati disposti a credere che il proprio cliente non sia un assassino, pur di assisterlo, anche se si presenta con le mani insanguinate, come è successo in questo caso. Credo, tuttavia, che ci siano tanti avvocati capaci di difendere i clienti senza farsi troppe domande, ma agendo come un chirurgo con la massima attenzione sia all’assistito sia a se stessi. C’è da dire che il chirurgo anestetizza il paziente e si mette la mascherina per non contaminarlo col proprio spirito. C’è un distacco tecnico e una non conoscenza della storia umana, che aiutano molto di più il medico, che non l’avvocato, nell’affrontare le operazioni più gravi. Tuttavia, l’imputato chiede aiuto all’avvocato come il paziente chiede aiuto al medico. E oggi mi vien da dire che se un professionista, al di là della propria indiscutibile competenza professionale, non è in grado di dare, anche umanamente, l’aiuto che il cliente chiede, è meglio che non si imbarchi in quella difesa. E sappia scegliere, con scienza e coscienza, come onorare al meglio il proprio ruolo; che non dovrebbe essere però quello di sindacare l’innocenza o la colpevolezza del proprio assistito, (spesso nota solo al Padreterno), ma di garantire che l’imputato venga processato nel rispetto di quel diritto che il penalista ha scelto di far applicare. In realtà, quindi, proprio scrivendo questo pezzo, ho finalmente capito che l’avvocato penalista difende il criminale e non il crimine: se tutti fossero innocenti, non esisterebbe l’avvocato penalista.