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 2020  novembre 27 Venerdì calendario

Maradona e quel Mondiale vinto da solo

Jorge Valdano era arrivato in Messico con due medaglie sul petto, la Liga e la coppa Uefa conquistate col Real Madrid. Aveva anche segnato un bel mucchietto di gol, e Maradona era sollevato al pensiero di poter contare su un buon terminale, perché il resto non era granché e aveva quindi bisogno di uno bravo vicino. C’era poi Jorge Burruchaga, un’ala reduce da un’ottima stagione al Nantes – miglior giocatore del campionato francese – e Oscar Ruggeri, un ruvido difensore suo pretoriano dai tempi del Boca, e dunque educato alla protezione del Diez qualsiasi cosa accadesse. L’Argentina del 1986 non era una grande squadra, forse nemmeno una squadra media; rendendosene conto il commissario tecnico Carlos Bilardo, el Narigon (il Nasone) nel lessico popolare, aveva accentuato la centralità di Maradona, alfa e omega di ogni ambizione. Diego desiderava la fascia da capitano ma il vecchio Passarella non era disposto a farsi da parte? Si accomodasse in panchina, così il problema non si poneva, o addirittura in tribuna, dopo che un invisibile consulto lo decretò affetto dalla vendetta di Montezuma. Daniel, che proprio in quell’estate avrebbe lasciato la Fiorentina per l’Inter, è l’unico argentino ad aver vinto i due Mondiali, 1978 e 1986: ma il secondo è un titolo vuoto perché non contiene nemmeno un minuto di gioco in sette partite. Come lui, soltanto i due portieri di riserva: quando Maradona diceva no, era no.
C’era un altro giocatore di alto livello, in quella rosa, ma ogni ricostruzione lo ricorda vecchio e imbolsito, chiamato solo in quanto idolo giovanile di Diego: Ricardo Bochini, la mezza punta dell’Independiente che era stato l’enganche prima dell’Enganche, il trequartista (il gancio che lega il centrocampo all’attacco) più bravo prima dell’avvento di Maradona. In realtà Bochini aveva soltanto 32 anni, ma dopo le molte ingiustizie patite in precedenza – la sua esclusione nel ’78 era stata scandalosa – la sua qualità pareva sfiorita. Bilardo gli concesse soltanto una manciata di minuti nella semifinale col Belgio, quando una doppietta del Diez aveva ormai messo al sicuro il risultato. Ma una volta che Bochini si dispose a bordo campo, pronto a subentrare a Burruchaga, Maradona gli corse incontro per dirgli, dolcissimo, «aspettavamo solo lei, Maestro». Al risolutore della semifinale, e con due gol di pregio assoluto, brillavano gli occhi per la soddisfazione concessa al calciatore che aveva tanto ammirato. Doveva sembrargli un atto di giustizia.
Due discreti giocatori già testati in Europa, un capitano che lo vedeva come fumo negli occhi, una stella svanita. E poi il fumoso Claudio Borghi, il ragazzino di gran classe ma scarsa applicazione che due anni dopo avrebbe fatto litigare Berlusconi e Sacchi, il bomber del Lecce Pedro Pasculli (suo compagno di camera) e a corredo una ciurma di tagliagole pescati direttamente dal campionato argentino, chi più mazzolatore chi meno, ma di livello base e senza troppi accessori. Non c’era un Giordano e nemmeno un Ferrara, per intenderci; se Diego avesse potuto portarsi dietro qualche compagno del Napoli si sarebbe sentito più tranquillo. Riuscì almeno a mettere in valigia Salvatore Carmando, il mago dei muscoli che custodiva i segreti del suo corpo, promettendogli che sarebbe diventato campione del mondo pure lui. Per una scommessa così valeva la pena di sacrificare le ferie.
Se consideriamo Maradona il più grande calciatore della storia, più grande di Pelé e Messi che sono gli altri due elementi della trimurti, è per via del Messico. È per un Mondiale bello ed emozionante che Diego vince da one-man- show o quasi, da capobanda di una gang da peggiori bar di Caracas guidata alla vittoria nel più argentino dei modi: gambeta, gambeta, gambeta. Vuol dire dribbling, il trucco da illusionisti che gli inglesi – inventando il football – avevano previsto come extrema ratio per superare un avversario che non si lasciasse staccare in velocità o in potenza, e che gli argentini avevano invece applicato come prova di mirabile destrezza. Del resto gli inglesi giocavano su prati da cartolina, gli argentini su campacci fangosi chiamati potrero, quelli dove le squadre si alternano, chi vince resta e chi perde va a casa, e spesso si gioca a soldi. E si impara a sopravvivere. Diego in Messico governa l’equipaggio con modi da capitano di potrero, angelo custode con i suoi e diavolo sterminatore degli avversari. Eccessivo come sempre, ma nel bene: molti anni dopo racconterà che per vincere quel Mondiale era riuscito a imporsi una distanza assoluta dalle sue dipendenze. A quanti chiedono “cosa sarebbe stato se” mostrate quelle partite, c’è la risposta.
Cinque gol e cinque assist, dice la sua scheda messicana: cifre forti, ma sono i momenti a contare. Maradona segna i due gol all’Inghilterra, per opposti motivi i più famosi della storia, e si ripete col Belgio strappando al portiere Pfaff un esterrefatto «è un marziano». In finale, guardato a vista da più rottweiler, con un assist al bacio innesca la lunga miccia di Burruchaga verso il gol della vittoria. Pelé ne ha vinti tre di Mondiali, ma da Djalma Santos, Didi e Garrincha all’attacco dei cinque numeri dieci (Jairzinho, Gerson, Tostao, Pelé, Rivelino: nemmeno il Padrino aveva un simile cast), è sempre stato la perla centrale di uno sfarzoso diadema. Nelle sue spedizioni Messi ha avuto di più, e ha concluso di meno. Non s’era mai visto un Mondiale dominato e vinto da un leader simile. E non si vedrà mai più, maledizione.