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 2020  novembre 27 Venerdì calendario

Intervista a Diego Dalla Palma

Quelli compiuti da Diego Dalla Palma il 24 novembre sono 70 anni votati alla bellezza delle donne. Ha calcolato di averne truccate forse trentamila: attrici, cantanti e donne comuni. Nato figlio di pastori, da bambino, le dive che avrebbe reso ancora più belle le vedeva solo sulle riviste che, di rado, qualcuno portava su ai pascoli. Dal 1978, il suo nome splende su cofanetti di make up nelle profumerie più eleganti del mondo. Lui ha scritto una decina di libri, ha condotto programmi radio e tv (l’ultimo è Uniche, su RaiPremium). Il New York Times l’ha definito «profeta» del Made In Italy.
La bellezza come entra nella sua vita?
«Guardando mia madre a Làmbara, luogo isolato da tutto, sulle Alpi Venete, tra vacche, capre e maiali. Era bella come Amália Rodrigues, la cantante di fado, e portava il rossetto anche fra le vacche. La bellezza è intraprendenza: è scegliere qualcosa che ci appartiene e ci distingue».
Detta così, sembra facile.
«Aggiungo: la bellezza è luccicanza, è il dolore che ti brilla negli occhi e non ti sconfigge. Frida Kahlo, Maria Callas, Edith Piaf... le icone sono passate da quel dolore».
Lei la luccicanza ce l’ha?
«Credo di sì. Non lo dico da lagnoso, ma di dolore sono morto tante volte. Ho visto la morte quando sono stato in coma per una meningite, a sei anni. Di quella nebbiolina lilla, ricordo la sensazione meravigliosa di avere una vita aerea. Conoscere la caducità della vita mi ha permesso di vivere profondamente».
Come diventa lookmaker un figlio di pastori?
«Disegnavo sempre visi dalle labbra pittate e l’insegnante di disegno capì quant’ero tormentato e che vita terribile avrei avuto senza l’arte».
Tormentato perché?
«Ero gracile, effeminato, sensibile e perciò pesantemente bullizzato. Se non fossi andato via, mi sarei ucciso. Però, chi mi ha fatto male non sa che mi ha scatenato il motore della personalità. Sono andato via per non morire e perché mia madre voleva che facessi ciò che lei non aveva potuto fare. Insomma, fui mandato a una scuola d’arte a Venezia con convitto dai preti. È stata la mia salvezza, ma lì ho avuto le attenzioni di un prete di 120 chili, padre Ugo. Eppure, non provo rancore. Prima di morire, mi chiamò e mi chiese: Dieghino, mi vuoi bene? Gli risposi di sì. Mi dissi: lascialo andare in pace».
A che età fu abusato?
«A quasi 15 anni, per due anni. Ma non la vivevo tanto come una violenza. Pensavo: sto qua, vado a scuola, qualcosa devo restituire».
Anni fa, si è dichiarato pansessuale.
«La predisposizione a sentire fremiti o sentimenti per donne e uomini è un patrimonio. In verità, l’ho abbandonata dopo un grande amore con una donna. Dopo, sono andato più verso l’omosessualità e ho ricordi meno belli. L’ammetto: ho molto peccato».
Peccato come?
«Ho messo il sesso come primo valore, sbagliando. L’ho praticato anche con più persone insieme. E coi tradimenti ho rovinato gli amori».
Non teme di raccontarsi.
«Non voglio dirmi migliore di come sono. Ho la necessità febbrile sia di carnalità sia di spiritualità. E dico tutto perché non voglio ricatti».
Qualcuno ci ha provato?
«Almeno dieci volte. Sono stato un erotomane dai 24 ai 40 anni, ma nessuno può pensare di rovinarmi: sono stato solo con adulti consenzienti».
Erotomane non lo è più?
«È successo lentamente, dopo la morte dei miei. Ho iniziato a chiedermi a che mi ha portato tanto sesso e la risposta è: vuoti esistenziali».
Le farò i nomi di alcune dive con cui ha lavorato. Com’era Dalida?
«Un mistero quasi funereo. Era quella bellezza».
Monica Vitti?
«Era la modernità».
Anna Magnani?
«Era l’impulso».
Mariangela Melato?
«Mi ha insegnato che è più straordinaria una vita imperfetta che una perfetta».
Perché è iscritto all’Onlus per l’eutanasia Exit?
«Per morire senza creare disagi e impegni a nessuno».
Il bilancio dei 70 anni?
«Che sono un uomo vitale e felice perché vivo tutti i giorni con l’innocenza del bambino che, per la prima volta, viene portato di fronte al mare».