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 2020  novembre 27 Venerdì calendario

Così è riesplosa l’epidemia in Lombardia

A più di nove mesi da quel 20 febbraio 2020 alle ore 20, giorno e ora del risultato del tampone positivo di Mattia Maestri, l’impressione è sempre la stessa: in Lombardia qualcosa sta andando storto.
La prima ondata dell’epidemia di Covid – con 76 mila contagi accertati tra fine febbraio e aprile e quasi 14 mila decessi ufficiali, oltre 1.300 malati in Terapia intensiva e 10 mila ricoverati contemporaneamente – la travolge con uno tsunami che arriva all’improvviso. Come già denunciato, il sistema ospedaliero, dove pubblico e privato sono nel corso degli anni messi sullo stesso piano, va subito in crisi: mancano tamponi e dispositivi di protezione, fallisce il ruolo di sorveglianza dei contagi sul territorio. Le cronache quotidiane sono scandite dalla strage nelle case di riposo, mentre la mancata istituzione della Zona rossa ai primi di marzo in Val Seriana, dovuta a un rimpallo di responsabilità tra Roma e Milano, porta alle immagini indelebili delle bare che escono da Bergamo sui camion dell’esercito. Su quanto accade all’ospedale di Alzano è in corso un’inchiesta della Procura. La discussione se la Regione guidata dal leghista Attilio Fontana e dall’assessore Giulio Gallera (Forza Italia) potesse reagire meglio, viste le condizioni date, è destinata a prolungarsi all’infinito. Impossibile dimenticare le famiglie delle vittime ancora in cerca di risposte.
Assistenza sul territorio
Ora il tema è un altro. Non meno importante. Con la seconda ondata emerge che il modello di Sanità lombarda non funziona soprattutto per un motivo: l’assistenza sul territorio. È il problema che – al di là dei risultati più o meno importanti ottenibili durante un’emergenza ovunque difficile da gestire – fa sentire il cittadino abbandonato a se stesso, porta di nuovo gli ospedali sull’orlo dell’abisso, fa alzare la voce ai sindaci che non trovano ascoltate le loro richieste.
Gli esempi si moltiplicano. La possibilità di conoscere l’esito del tampone da casa in tempi rapidi, consultando il proprio fascicolo sanitario, senza aspettare la telefonata del proprio medico di famiglia o la comunicazione delle autorità sanitarie, entrambi ingolfati, arriva solo il 22 ottobre. Fino ad allora più di un cittadino aspetta per giorni il risultato in un meccanismo perverso. Sindaci e Prefetture ricevono praticamente in tempo reale la lista dei propri residenti positivi, mentre i diretti interessati non sanno ancora nulla: i due canali di comunicazione non interagiscono tra loro.
I positivi che non hanno un’abitazione adeguata per isolarsi, né sono da ricovero in ospedale, devono andare nei Covid hotel, ma i primi bandi sono di fine ottobre e manca un coordinamento centrale, nonostante la delibera 3.525 con cui la Regione dà indicazione alle Agenzie di Tutela della Salute (Ats) di attivarsi per reperire posti risalga al 5 agosto. Ogni Ats fa a modo suo (rimborso al giorno alla struttura e requisiti richiesti) e tutte sono in ritardo: l’Insubria che comprende le province di Como e Varese apre il bando il 2 novembre, rimborso offerto 85 euro; Pavia il 29 ottobre, rimborso 70-80 euro; Milano il 21 ottobre, rimborso 95 euro.

I medici di famiglia
I medici di base procedono in ordine sparso tra chi si tira il collo per seguire al meglio tutti e chi non viene trovato dai propri pazienti. Da marzo a ottobre il 60% dei positivi accertati dall’Ats di Milano fa il tampone su richiesta dei dottori di famiglia (45.614 segnalazioni). Ciò vuol dire che, senza il loro lavoro di filtro, il sistema non sarebbe in grado di controllare la pandemia. Ma bisogna considerare anche che il 40% dei contagiati (29.478) ha scoperto di essere positivo facendo un tampone in Pronto soccorso o privatamente (o perché non ha ritenuto di chiamare il proprio dottore o perché non lo ha trovato): in un sistema con cure primarie che funzionano la percentuale di pazienti costretti ad arrangiarsi non dovrebbe superare il 20%. In base al (primo) report inviato l’11 novembre al commissario Domenico Arcuri su 7.321 medici di famiglia e pediatri lombardi solo 1.812 accettano di eseguire il tampone rapido (a Milano, con una categoria di dottori fortemente sindacalizzata, il dato clamoroso: appena 232 aderenti su 2.507).
E ancora. Un paziente su tre ricoverato in ospedale potrebbe essere seguito a casa se ci fosse l’assistenza necessaria, senza ingolfare le corsie: nei verbali della Cabina di regia del ministero della Salute che analizza i dati per capire le criticità di una Regione, più volte per la Lombardia scatta l’alert per il rischio di una troppo elevata occupazione dei letti da parte di pazienti Covid (superiore al 40% dei posti totali). Il pasticcio dei dieci bandi di gara per ordinare 2,8 milioni di vaccini contro l’influenza con conseguente ritardo nella distribuzione ai centri vaccinali e ai medici di famiglia e lotti al prezzo record di 26 euro fa il resto (al 21 novembre si raggiunge la soglia di 1,8 milioni di dosi consegnate).

La riforma incompleta
L’elenco di quello che non sta funzionando è lungo, ma il fil rouge è sempre lo stesso: i servizi territoriali. Il motivo? Utilizzando un’immagine, potremmo dire che con la riforma della Sanità dell’11 agosto 2015 di Roberto Maroni – destinata a correggere il sistema ospedalocentrico del ventennio di Roberto Formigoni – viene tirata giù una casa perché non risponde più alle necessità attuali, c’è un progetto per farne un’altra, ma la costruzione del nuovo edificio resta a metà.
Per spiegare la confusione dell’organizzazione dei servizi territoriali prendiamo come esempio la città di Milano: i poliambulatori dipendono dall’Azienda socio-sanitaria territoriale (Asst) Nord Milano che ha dentro di sé gli ospedali Bassini e Città di Sesto San Giovanni; la scelta e revoca del medico di famiglia è in capo al Niguarda; i consultori familiari all’Asst che riunisce Sacco e Fatebenefratelli. Lo stesso vale per l’offerta di vaccinazioni; i servizi di salute mentale sono divisi per varie Asst con i più svariati ospedali; le tossicodipendenze sono in carico all’Asst che comprende gli ospedali San Carlo e San Paolo (definiti i Santi!).
Prima della riforma 2015 i servizi territoriali sono tutti riuniti sotto il cappello delle famose vecchie Asl. Preso atto che il sistema non funziona, la decisione è di cambiare. Colpo di spugna sulle 15 Asl, nascono 8 Ats. Il loro compito è quello della programmazione: decidere, in base ai bisogni della popolazione, chi deve fare cosa e organizzare di conseguenza l’offerta sanitaria.

Il ruolo delle Ats
Nella realtà le Ats restano anatre zoppe: i cordoni della borsa – ossia i 18,5 miliardi di euro che muove la Sanità lombarda – restano accentrati nell’assessorato al Bilancio (neppure in quello della Sanità), in compenso: 1) assumono il ruolo di interlocutori della Conferenza dei sindaci (con i quali evidentemente, non avendo disponibilità di soldi né di erogazione delle prestazioni sanitarie, possono fare ben poco al di là di quattro chiacchiere), 2) sono il front office dei medici di famiglia (liberi professionisti in convenzione con il servizio sanitario nazionale, dunque difficili da gestire). Né i sindaci né i medici di famiglia vengono messi in stretta comunicazione con i loro interlocutori naturali, ossia le Aziende socio-sanitarie territoriali che hanno il compito di offrire le prestazioni in base alle esigenze del territorio. Insomma: nella casa costruita a metà manca una stanza dove chi meglio conosce i bisogni della popolazione possa confrontarsi con chi concretamente offre le prestazioni e collaborare per l’effettiva erogazione di ciò che serve. In gergo tecnico, la stanza viene chiamata distretto: ce ne vorrebbe uno per ogni area del territorio. In questi mesi i distretti avrebbero potuto favorire il dialogo con gli amministratori locali.

Le «Case della salute»
La legge 23 prevede che le Aziende socio-sanitarie territoriali, un tempo semplici ospedali, abbiano due bracci operativi: il polo ospedaliero e la sanità territoriale. Il secondo braccio di fatto non viene mai attuato: è proprio quello che riguarda la nascita dei presidi ospedalieri territoriali (Pot) per cure di bassa intensità e di strutture che erogano prestazioni sanitarie e sociosanitarie ambulatoriali e domiciliari a media/ bassa intensità (definiti Presst, ossia Presidi socio-sanitari territoriali). Le «Prime indicazioni per l’avvio del percorso di riordino di riclassificazione dei Presst, dei Pot e delle degenze di comunità» risalgono al 31 luglio 2019, a distanza di quattro anni dalla riforma della Sanità. Ciò vuol dire che la Lombardia sta affrontando l’emergenza Covid senza le strutture che, come ricordato più volte dall’assessore Gallera, «servono per dare risposte alternative al Pronto soccorso e agli ospedali» (quelle che ci sono si contano sulle dita delle mani).

I malati cronici
E al momento ha numeri ancora fallimentari anche il progetto di presa in carico dei malati cronici, partito nel gennaio 2017: su 3.461.728 pazienti con diabete, malattie cardiovascolari, problemi di ipertensione ecc., in base agli ultimi dati disponibili al 31 gennaio 2020, ne risultano arruolati 272.861. L’idea è di avvalersi dell’attività di gestori, ovvero soggetti accreditati per prendere in carico i pazienti lungo il percorso di cura, che s’avvia con la sottoscrizione di un Patto tra l’assistito e un clinical manager (solo dal 2018 il clinical manager può essere lo stesso medico di famiglia, anche in forma non associata, oltre al medico referente specialista del gestore stesso). Il progetto è evidentemente troppo complesso per decollare. L’impronta è imprenditoriale – e con una mano tesa alla Sanità privata – più che di assistenza clinica.
In questo contesto chi può permettersi di pagare se la cava: la Sanità privata accreditata offre tamponi a 80 euro, consulti video a 90 e visite diagnostiche domiciliari a 450 euro (con prelievo del sangue, radiografia e tampone). La pandemia non è uguale per tutti.