il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2020
Stroncatura di "La lezione di Enea" di Andrea Marcolongo
“Abbiamo tutta una vita/ da non vivere insieme”. La beffarda poesia di Manganelli apre il quinto capitolo del libro La lezione di Enea di Andrea Marcolongo. Tutti i nove capitoli (e anche la bibliografia) si aprono con una poesia di Manganelli e talvolta si chiudono con una di Caproni.
Fedele al successo del fortunato esordio (La lingua geniale, sempre Laterza, 2016), Marcolongo segue il solco classico spostandosi verso il mondo latino. Il punto da cui parte è la scarsa considerazione del lettore contemporaneo per l’opera di Virgilio dovuta – secondo l’autrice – a varie ragioni, in primis al momento storico in cui siamo immersi, anzi eravamo immersi. Se Ulisse ci può dare molto in tempi di pace – questa la tesi portante – Enea dà il meglio in tempi di guerra e in questo momento difficile può essere un riferimento. Siccome non è ancora prescritto come cura antivirale e sta arrivando il vaccino, ci sono le poesie di Manganelli e di Caproni. Se non bastasse tutto questo, ci sono le celebrazioni dantesche e l’amor patrio (il libro è dedicato “al mio paese, l’Italia”). In fondo Virgilio è conosciuto ai più come guida di Dante nell’Inferno e nel Purgatorio. Un po’ come per certe insegne milanesi dove si promette di tutto e di più: pizza, kebab e sushi.
Il parallelo è forse troppo spinto. Qui gli ingredienti sono sofisticati e non popolari, a partire dall’antiromanticismo manganelliano. E allora ben vengano titoli che parlano di antichi poemi da programma scolastico, inframmezzati da versi cupi, se per di più raggiungono un vasto pubblico pure all’estero? Leggendo La lezione di Enea si ha l’impressione che la pars destruens, lo svolgimento del presupposto, cioè il racconto della scarsa passione che il lettore comune ha per l’Eineide, vada oltre le intenzioni dell’autrice. Anche perché una prosa ripetitiva e a volte confusa, in cui si infila sempre di tutto come in preda all’horror vacui, contribuisce involontariamente a rafforzare l’effetto. La seconda parte del libro scorre meglio, ma bisogna arrivarci superando lo scoglio di frasi come questa: “‘No grazie, l’Eneide non la leggo, ho già letto l’Odissea’, mi hanno persino risposto una volta come se una escludesse l’altra. Un po’ come se l’aver letto Le correzioni di Johnatan Franzen esentasse dal leggere anche Il colibrì di Sandro Veronesi”. C’è dell’altro.
Già ghostwriter di Matteo Renzi e studentessa della Holden di Baricco, dunque non esattamente una nerd della papirologia, l’autrice tenta a più riprese di accreditarsi come militante di oscure cause perse, cultrice di lingue morte al limite della necrofilia iniziatica, indefessa molestatrice del prossimo in dialoghi sugli antichi dèi dell’Olimpo letterario. La posa è irritante e poco credibile, anche al netto dell’artificio retorico. “Il professore di lingue morte si suicidò per poterle parlare”. Non siamo a questo livello per fortuna, ma la battuta di Longanesi rende l’idea.
Fin qui l’impressione di un lettore comune. Resta la curiosità di sapere quale sia l’impressione di un latinista. “La lezione di Enea è un libro che lascia perplessi, e non certo perché a scriverlo sia stata un’autrice estranea alla cerchia dei classicisti di professione”, spiega Mario Lentano, docente all’università di Siena e membro del Centro di antropologia del mondo antico. “Il punto è che il saggio formicola di errori fattuali, indice di una lettura frettolosa dei testi che cita. Mi limito a tre esempi, che si potrebbero facilmente moltiplicare. Quando si scrive che Augusto era dittatore a vita, confondendolo con Cesare, quando viene attribuito a Lavinia un vivo amore per Turno che Virgilio riferisce invece a sua madre Amata, quando si vede in horresco referens (“Inorridisco nel raccontarlo”) un inesistente supino passivo si inganna il lettore, gli si vende merce contraffatta. E questo è qualcosa che l’autore di un libro non dovrebbe mai fare”. Lentano non contesta l’interpretazione che viene data dell’Eneide, opera che dovremmo affrettarci a riscoprire dopo avere deposto Iliade e Odissea, per la capacità di insegnarci a “resistere e sperare”, come spiega Marcolongo. “I classici sono di tutti, e così i protagonisti delle loro storie”, conclude il professore. “Specie quando quelle storie sono miti, e dunque racconti, per loro natura, esposti alla variazione, mai fissati in una forma definitiva. Magari si può trovare un po’ naïf l’idea che fosse necessaria un’epidemia globale per riscoprire Enea e un po’ pretenzioso che si elevino le proprie esperienze individuali a fenomeno epocale: suonerà sorprendente, ma Virgilio era letto e apprezzato anche prima che il lockdown inducesse la Marcolongo a riprenderlo in mano. Detto questo, il grande ritorno di Enea nel discorso culturale del nostro tempo significa che la sua vicenda intercetta temi forti e stati d’animo diffusi. E il volume della Marcolongo, con tutti i suoi limiti, è un segno di questa rinnovata presenza”.
Aspettiamo ora un saggio amoroso sul bosniaco, lingua che Marcolongo ha appreso avendo vissuto a Sarajevo – qui sì che si potrebbe atteggiare a “strana” (cit. La lingua geniale), a vestale di culti più marginali – partendo dal tatuaggio “Sarajevsko” che evoca la birra.