«L’infanzia non è un paradiso perduto, è un’età come le altre». Andrés Barba è uno scrittore nomade: per scelta e per necessità ha frequentato generi letterari e spazi differenti. Inserito dalla rivista Granta tra i migliori narratori contemporanei di lingua spagnola, ha scritto poesie, racconti, saggi e alcuni romanzi inquietanti che ritraggono senza compiacenza quella che Sartre chiamava l’età della violenza. Ha vissuto in Spagna, dove è nato nel 1975, negli Stati Uniti e in America Latina dove abita dai primi mesi della pandemia. Il Covid lo ha sorpreso a New York e inseguito in Argentina, Paese tra i più colpiti al mondo: «Penso che sia difficile misurare fino a che punto il virus abbia cambiato le nostre menti. Molte delle vecchie parole non funzionano più. E trovarne di nuove è qualcosa che non accade dall’oggi al domani».
Il romanzo che torna nelle librerie italiane nella traduzione di Pino Cacucci, Le mani piccole (La nave di Teseo), riflette proprio l’attenzione dell’autore per le parole: ognuna è stata scelta e levigata con cura per descrivere l’inserimento in orfanotrofio di Marina, sette anni, dopo la morte accidentale dei genitori. La bambina diventerà per le compagne oggetto di ammirazione e repulsione, il termometro per misurare la vita che non si è avuta e la fine dell’ingenuità. Amore e dolore si mescoleranno fino a quando dall’immaginazione di Marina non nascerà il Gioco, una strategia per fuggire dalla realtà, una sfida terribilmente seria e dalle conseguenze drammatiche.
Barba come è nato questo romanzo?
«L’idea mi è venuta leggendo un episodio vero accaduto a Rio de Janeiro e che Clarice Lispector riferisce nel racconto La donna più piccola del mondo . Mi sembrava che in quell’accadimento, ovviamente terribile perché parlava della morte di una ragazza, ci fosse una storia di amore e attrazione selvaggia».
Quali sono gli autori, oltre a Lispector, che l’hanno guidata?
«Marina Cvetaeva e Natalia Ginzburg, ma non solo. Cercavo modelli in cui i confini tra prosa e poesia fossero sfumati, ma anche autori con capacità di sintesi e precisione, in grado di creare un ambiente completo in due o tre versi, come Pavese».
Quando ha iniziato ad associare l’infanzia alla natura selvaggia?
«Il mondo dei bambini mi attrae da sempre, ma da una prospettiva in cui l’adulto rinuncia alla mitologia ricoperta di zucchero dell’età felice.
Mi interessa cosa succede tra i bambini quando sono soli, senza adulti da accontentare. L’infanzia non è un paradiso perduto. Ecco perché contiene un elemento di violenza che l’adulto spesso non riconosce: va contro la storia fittizia che si è creato e alla quale non vuole rinunciare».
Come spiega questo lato oscuro dell’infanzia?
«L’oscurità, se vuole chiamarla così anche se non mi piace quella parola, esiste perché anche i bambini sono esseri umani: hanno libido, pulsioni, passioni, vogliono piacere e dominare... Non sono piccoli angeli.
Sono persone. I desideri di un bambino non sono meno complessi, ambigui o sfumati di quelli di un adulto, l’unica differenza è che a volte gli adulti possono comunicarli e i bambini no».
"Le mani piccole" sembra una narrazione che ripercorre la realtà esplicita, una favola realista che a differenza del "Signore delle Mosche" non contiene alcuna morale.
«Non mi piacciono le narrazioni simboliche. Voglio dire, le narrazioni che vengono pensate fin dall’inizio come metafora di qualcosa. Credo che il potere simbolico di una storia sia qualcosa che deve scaturire dalla storia stessa, senza l’intenzione esplicita dell’autore che altrimenti rischia di trasformarla in un pastiche moralistico. Quando ho scritto questo romanzo ero molto interessato all’intensità quasi dolorosa con cui ammiriamo e amiamo da bambini».
Come le appare l’infanzia nei tempi della pandemia?
«Molto difficile, soprattutto per i bambini provenienti da famiglie della classe operaia, senza possibilità di ossigenarsi, correre e interagire con altri bambini. Oggi più che mai i bambini dipendono dalla creatività, dall’energia e dal reddito dei loro genitori. In Europa il Covid sta mettendo alla prova le famiglie come non era mai successo dalla seconda guerra mondiale. È impossibile sapere quali saranno le conseguenze emotive di tutto questo, possiamo solo sperare che a un certo punto li renderà più saggi».
Lei vive in Argentina, il Paese che nonostante la quarantena più lunga del mondo, ha raggiunto il milione di infetti da Covid 19. Come è stato possibile?
«Semplicemente, lo spiego con la paura del collasso del sistema sanitario insieme a un’economia sommersa che coinvolge milioni di persone e a una brutale svalutazione del peso. L’Argentina è in una situazione veramente critica».
Questo incubo quotidiano come l’ha influenzata?
«All’inizio dell’anno vivevo a New York con la mia famiglia. Siamo stati costretti ad andarcene perché la nostra assicurazione sanitaria familiare, quasi mille dollari al mese, non ci avrebbe coperto in caso di Covid, e il costo medio a New York per un trattamento senza assicurazione è di circa 50 mila dollari. Siamo tornati a Madrid, e poi abbiamo deciso di trasferirci in Argentina, prima a Buenos Aires e poi a Posadas, al confine con il Paraguay».
È stato un anno molto complicato…
«Si, pieno di decisioni critiche, senzatetto da quasi 8 mesi, in hotel o in casa di amici e parenti, e trascinando un bambino di 2 anni per tutto il percorso. La verità è che scrivere era impossibile in quel contesto. E poi credo sia necessario fermare un po’ la macchina di produzione. Non so come abbiano fatto alcuni autori ad avere scritto in così pochi mesi un saggio sul virus.
Penso che sia difficile misurare fino a che punto questa pandemia abbia cambiato le nostre menti. Molte delle vecchie parole non funzionano più. E trovarne di nuove è qualcosa che non accade dall’oggi al domani».