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 2020  novembre 24 Martedì calendario

Un’intervista inedita a Jorge Luis Borges

È curioso che a lei piacciano sempre grandi scrittori che non sono labirintici .
«Ariosto un poco lo è, però è un labirinto felice, è come un fiume con tanti meandri, non è un labirinto nel senso di Henry James o Kafka. Quelli di Piranesi sono veri labirinti, però Ariosto è un’altra cosa, è un labirinto felice. Una volta ho immaginato…».
Ha immaginato che cosa?
«Credo che l’idea fosse questa: nell’ultimo viaggio, Dante è stato a Venezia, vero? Andiamo a supporre, che egli volesse scrivere un altro libro dopo la Commedia . Immaginiamo un monologo di Dante: scriverò tale libro, non è necessario che lo scriva, perché immaginarlo sarebbe moltissimo, no? Dopo muore senza averlo scritto, potrebbe essere un racconto fantastico. È così misteriosa la letteratura che non si sa cosa è chiaro e cosa è oscuro, è un’arte tanto misteriosa tanto difficile da realizzare».
Esiste una contraddizione tra la chiarezza e il labirinto?
«Sì, soltanto che il labirinto è stato ideato con chiarezza. Vuol dire che al labirinto, al caos, non si arriva col caos, si arriva col cosmo. Si intende che il labirinto ha un ordine segreto. È disposto per l’ordine e per essere compreso».
Qual è il primo labirinto che ha visto in vita sua?
«Il primo l’ho visto su un’incisione. Dopo sono andato a Cnosso, a Creta, poi a Hampton Court, che è un maze, un labirinto scherzoso: il labirinto spesso è un simbolo di felicità. E poi questa parola “labirinto” è così bella».
Cosa significa per lei la parola labirinto?
«Suggerisce qualcosa di terribile. Anticamente si riferiva alle gallerie delle miniere. In Chaucer, nel XIV secolo, il labirinto si muove, è fatto di giunchi, circolare, molto strano; e ho letto che il labirinto, Dürer, se lo immaginava girevole».
Secondo lei, i gironi dell’inferno possono essere considerati una specie di labirinto?
«Forse sì. Il labirinto fino al Rinascimento era una struttura in cui si arrivava sempre al centro; dopo, col Manierismo, invece, il labirinto diventa il luogo della perdita, quindi esiste un labirinto che è più vicino alla nostra sensibilità e che comincia col Manierismo e col Barocco. Chesterton ha detto: noi siamo quello che noi tutti temiamo, un labirinto senza centro».
Il labirinto della sua letteratura ha un centro?
«Sì, ha un centro; in apparenza è un labirinto, e dopo si vede che in realtà è un cosmo, che c’è un ordine, che c’è una spiegazione ragionevole. Io non so perché ho usato tanto il labirinto; perché fin da quando ero piccolo l’idea del labirinto e quella del Minotauro hanno catalizzato tanto la mia attenzione, non saprei spiegarmelo. Questa ossessione è stata notata dai lettori, io non la conoscevo, la esercitavo o ne ero vittima, però non ho mai cercato di spiegarmela. Lo sa che io non ho mai letto niente di quanto scritto su di me, io non ho mai letto un libro scritto su di me. O perché mi interessava poco il tema, o perché mi interessava troppo. Si è scritta una biblioteca su di me, io non ho mai letto niente. Io credo di comprendere che i miei racconti hanno un centro, ma tante volte no, per incapacità mia. Non cerco di essere oscuro, io cerco di essere un classico, però sembra che io sia disgraziatamente moderno. Un mio amico, de Chirico, quando diceva che qualcosa era brutto, diceva “è moderno, è brutto”».
De Chirico, il pittore? Giorgio de Chirico?
«Sì. Diceva “è brutto, è moderno”».
Lei cosa ne pensa della pittura di de Chirico?
«È un grande pittore; non posso vedere le sue opere, perché ho perso la vista. Nell’anno 1955 ho potuto vedere qualche film, dopo ho potuto vedere dei volti, e adesso no, adesso vivo al centro di una nebbia, di una nebbia luminosa, più o meno grigiastra o verde. Ho perso due colori, il rosso e il nero. Quello che mi fa nostalgia è il nero; avevo l’abitudine di dormire nell’oscurità, adesso non c’è oscurità per me, ora è tutto vagamente luminoso e non vedo forma, non vedo movimento. Se muovo la mano, la vedo che si muove, però non vedo che è la mia mano; e quando muovo las tontas (in gauchesco: “gamboni”, “piedoni”, estremità”, n.d.t.) mi sembra di vederli. Però non è terribile, perché è stato un processo così lento che non c’è stato nessun momento tragico; se fosse stato brusco, sarebbe stato, sì, tragico, e uno avrebbe potuto anche suicidarsi. Ma siccome ho visto i miei genitori morire ciechi, mia nonna morire cieca, il mio nonno inglese morire cieco e, più indietro, non so».
Si può dire che nella sua letteratura…
«Io conosco molto poco la letteratura, io la scrivo e la dimentico, voi la conoscete di più perché l’avete letta. Io l’ho letta per correggere le bozze, e ultimamente neanche, perché non potevo correggerle. Cerco di dimenticare quello che ho scritto e di pensare a ciò che scriverò; credo che sia malsano guardare indietro. Franco Maria Ricci mi ha detto: “Pubblichiamo per non passare la vita a correggere i manoscritti”. Se si pubblica un libro, ci si libera di lui; io pubblico un libro e non so se sia venduto, se sia tradotto, se ha avuto successo, se hanno scritto su di esso, se non hanno scritto. Io giudico attraverso i miei amici; se i miei amici non me ne parlano è perché non è loro piaciuto, e se me ne parlano sono molto generosi di particolari. Non ho mai cercato di essere famoso, è questione di generazione: quando io ero giovane non si pensava al successo».
Si potrebbe dire che lei è l’Omero moderno per un carattere di universalità che la sua opera sembra possedere, forse anche per la sua chiarezza…
«La chiarezza è una forma di gentilezza che bisogna avere per il proprio lettore. Oltre la mitica cecità non so che cosa mi possa avvicinare al grande Omero, al grande poeta dell’oralità».
Lei ha pubblicato in Italia un libro che si chiama appunto Oral, in cui traspare una sorta di metodo socratico, un amore per il discorso orale. Eppure lo stile non si discosta da quello scritto.
«La cecità non ha potuto togliermi il suono delle parole, il piacere di intrattenermi con un pubblico che non vedo ma che sento silenziosamente rivolto verso di me. Come è successo in Italia, a Milano nella mostra del labirinto, quando ho parlato davanti a un pubblico che recitava a memoria le mie poesie. Ecco questo forse è un labirinto confortevole…».