Corriere della Sera, 24 novembre 2020
Il riscatto dell’orgoglio mestruale
Una delle scene più sorprendenti del secondo capitolo di Borat, il film di Sacha Baron Cohen uscito il mese scorso – alcuni critici l’hanno definita la «gag più pesante», altri la «scena del disagio» – ha a che fare con il ciclo femminile. Durante un ballo delle debuttanti, che vuole essere raffinato e di classe, Borat con la figlia Tutar si cimentano in una danza kazaka della fertilità che, sulle prime, sembra divertire molto i partecipanti all’evento, finché la ragazza, presa dal vortice del ballo, si alza la gonna mostrando l’inequivocabile chiazza rossa prodotta da un abbondante flusso mestruale. Allora le facce dei presenti cambiano radicalmente: la telecamera le pedina una dopo l’altra, la sola espressione che resta in circolazione nella sala è il disgusto. Tutar, la danzatrice mestruata, però non sembra rendersi conto del panico che ha scatenato: cosa sarà mai un po’ di sangue, sembra pensare, tutte le donne ce l’hanno una volta al mese per buona parte della loro vita, è un’esperienza collettiva della maggior parte della popolazione mondiale...
Tutar non si vergogna. E vergogna, quando si parla di mestruazioni, è invece la parola chiave, come ricordava Questo è il mio sangue. Manifesto contro il tabú delle mestruazioni, saggio della francese Élise Thiébaut uscito nel 2018. «Le donne sono convinte della loro inferiorità. Perché succede? La mia ipotesi – spiegava Thiébaut – è che, dato che sanguiniamo ogni mese per oltre 40 anni della nostra vita, siamo convinte di essere ripugnanti, che dobbiamo vergognarci di ciò che accade al nostro corpo». Persino chiamare le mestruazioni con il loro nome sembra allora un problema, il ricorso alla perifrasi è la norma perché si tratta di una parola anch’essa «sporca»: sono indisposta, ho le mie cose, è arrivato il marchese, sono in quei giorni, ho le rosse, ho il mal di pancia, ho i crampi.
Sguardi
È il salto tra l’odiare
sé stessi, magari solo in quei giorni, e l’amare sé stessi, comunque vada
E se la vergogna cedesse il passo all’orgoglio? «Abbiamo creato una tonalità di rosso che possa incoraggiare le persone che hanno le mestruazioni a sentirsi orgogliose di ciò che sono», ha scritto su Instagram l’americana Pantone – azienda a cui fa capo il sistema di classificazione dei colori nel mondo, che ha lavorato al progetto con una società svedese di prodotti sanitari – presentando «Period», il rosso mestruazioni, una sfumatura «attiva e avventurosa». Andrà mai di moda? «È un rosso pieno di fiducia» dice Laurie Pressman, presidente di Pantone, spiegando che accendere un riflettore sul colore Period può aiutare miliardi di persone che hanno le mestruazioni «a non trattarle più come qualcosa che non deve essere vista».
Un’operazione che potrebbe rientrare sotto il grande cappello della body positive, tentativo di scardinare le regole predefinite di normalità e bellezza che bollano come indicibile o invisibile tutto ciò che non vi rientra: i corpi grassi, i corpi vecchi, i corpi che perdono sangue. «Siate sicure di voi – esorta Pantone con toni trionfalistici – alzatevi in piedi e celebrate con passione l’eccitante e potente forza vitale, esortare tutti a sentirsi a proprio agio a parlare apertamente di questa funzione corporea naturale».
È il salto tra l’odiare sé stessi, magari non sempre ma in quei giorni sì, e l’amare sé stessi, comunque vada. Tutar – che sogna di trovare un marito americano che, come da tradizione kazaka, la rinchiuda in una gabbia – con quel ballo sfrenato dimostra di aver preso alla lettera sia l’invito di Pantone, sia quello lanciato nell’etere dallo spot di un assorbente, il quale, dopo aver mostrato un paio di gambe femminili attraversate da un rivolo rosso, sentenziava: «Il ciclo è normale, mostrarlo dovrebbe esserlo allo stesso modo». Tutar quella lezione l’ha imparata. Il disgusto per le mestruazioni non è più affar suo.