Corriere della Sera, 23 novembre 2020
Quarant’anni fa il terremoto in Irpinia
«La morte non ci volle subito. Ci venne a prendere chi sotto una porta, chi sotto uno stipite, chi sotto una scala... Si spezzò la spina dorsale alla terra, e la terra sgranò, precipitò a falde, assieme alla pioggia. Niente rimase più al posto suo. Era una fine del mondo, e un mondo finì». Così Vinicio Capossela narra ne Il paese dei coppoloni l’apocalisse del 23 novembre 1980. Quel mondo era l’Irpinia.
q uando il nostro Ulderico Munzi arrivò faticosamente a Lioni, tra voragini, macerie, strade distrutte, erano le tre di mattina. E il suo incipit avrebbe lasciato i lettori del Corriere col groppo in gola. «Questa luna di Lioni, alta nel cielo, dà ai volti dei vivi un pallore da morti. Il suo chiarore sulle macerie, sulle case squarciate, sulla polvere ancora riempie l’aria gelida del paese... Lioni appare disabitata. Scorgo ombre che si muovono in un silenzio disumano, incrinato a volte dai lamenti e dalle grida di quanti sono sepolti... “Dio, dove sei?”, reagisce guardando il cielo stellato una giovane donna. Il figlio, il marito, i genitori sono sotto le macerie».
Furono dure e struggenti le testimonianze che raccontarono lo scossone in quella terra già colpita da eventi simili nel 1910, 1930, 1962... Numeri spaventosi, riassunti dagli storici Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise: «2.735 morti, circa 9.000 feriti e oltre 394.000 senzatetto. Sei paesi completamente atterrati, il patrimonio edilizio di un’ampia area, dalle montagne alla pianura, gravemente colpito. Oltre 77.340 case distrutte, 275.260 gravemente danneggiate». Magnitudo 6.9 della scala Richter.
Ettore Mo raccontò della deposizione in piazza di bare «con i morti dentro e il nome iscritto con un coltellino sul legno: Luongo Carmine, Marzullo Stefano, Rosamila Domenico...». Vladimiro Settimelli, dell’ Unità , descrisse una specie di terrazzo davanti a una scuola dov’erano stati adagiati i corpi di «dieci, venti, trenta, cinquanta povere donne col volto tumefatto e la bocca piena di calcinacci». Leonardo Sciascia fu scosso dall’abuso di certe parole: «I paesi-presepi: una delle espressioni più retoriche e mistificanti che siano venute fuori su questa grande tragedia del terremoto. Chi la legge o la sente non sa precisamente cosa vuol dire, ma intravede l’idillio, la serenità, la semplicità, la sicurezza dei rapporti umani, la genuinità delle cose oltre che degli uomini, il silenzio. Suggestionati dal fatto che la catastrofe è giunta improvvisa a cancellare tutto, si è quasi portati a credere che abbia cancellato quel particolare tipo di vita: la vita da presepe nei paesi presepi. Ma basta un momento di distacco, di riflessione, per prendere coscienza che quel tipo di vita già da un pezzo era stato cancellato».
«Le macerie tra le quali si assiepa la folla sono tipiche del modo di costruire moderno. Le case erano tutte fabbricate col cemento e infatti si scorgono enormi blocchi bianchi dai quali si divincolano e si torcono per l’aria polverosi serpentelli di ferro», scrisse Alberto Moravia, «Il crollo si spiega, al solito, col furto: si è lesinato il ferro in mancanza del quale il cemento, diciamo così, diventa disarmato». E le case si fanno «convertibili in tombe». E così «l’ospedale nuovo, inaugurato l’altr’anno, è crollato, i malati sono morti, gli infermieri sono morti, i medici sono morti. E perché sono morti? Perché c’è stato chi ha rubato sul cemento come il negoziante disonesto ruba sul peso».
Tra lacrime di figli, invocazioni di pompieri, denunce di ritardi nei soccorsi, volontari stremati dalle fatiche, tassisti milanesi scesi nel buio «col coeur in man» tra quei monti per portare in dono roulotte, urla alla scoperta di persone forse ancor vive tranciate dalle ruspe, a un certo punto ecco un frullio di ali: «Sceso dal cielo in elicottero prima del pane, del latte, delle coperte, delle pale per tirare fuori i morti e i vivi», scrive sul Corriere Antonio Padellaro, «Sandro Pertini subisce a Laviano, duemila abitanti, mille morti, gli insulti brucianti dei sopravvissuti che mentre il capo dello Stato percorre questo cimitero di macerie, vanno avanti a scavare con la forza delle mani sanguinanti... Pertini percorre la sua Via Crucis anche quando un uomo sbucato dalle rovine alla vista di quel corteo di signori, senza neppure sapere chi sono, si mette a gridare: “Non è uno spettacolo, merde, merdacce, io tengo mia moglie lì sotto, sono due giorni che urla”. Guardando fisso davanti a sé senza una parola, caricandosi di tutte le manchevolezze, i ritardi, le omissioni compiute sulle carni di questa disgraziata gente, Pertini continua a camminare...».
La sera dopo, il presidente parla in tivù: «Italiane e italiani, sono tornato ieri sera dalle zone devastate…» Denuncia che «a distanza di 48 ore non erano ancora giunti in quei paesi gli aiuti necessari». Spiega d’aver ascoltato i cittadini, «la loro disperazione e il loro dolore, la loro rabbia». Conferma che «non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci». Ricorda: «Una bambina mi si è avvicinata disperata, mi si è gettata al collo e mi ha detto piangendo che aveva perduto sua madre, suo padre e i suoi fratelli». Confida l’orgoglio per i soldati e i carabinieri, stremati e affamati, hanno dato agli sfollati «la loro razione di viveri». Accusa: «Nel 1970 in Parlamento furono votate leggi riguardanti le calamità naturali. Vengo a sapere adesso che non sono stati attuati i regolamenti di esecuzione di queste leggi». È furibondo: «Non deve ripetersi quello che è avvenuto nel Belice».
Andrà per certi versi ancora peggio. Confermando i presagi preoccupati di conoscitori del Sud come Giovanni Russo e Corrado Stajano, che in vari reportage e l’anno dopo nel libro Terremoto riassunsero nel sottotitolo tutti i problemi di un riscatto complicato: «Le due Italie sulle macerie del Sud, volontari e vittime, camorristi e disoccupati, notabili e razzisti, borghesi e contadini, emigranti e senzatetto».
Due Italie che non si conoscevano neppure se mosse da buoni sentimenti come una ragazza milanese: «A dieci minuti da un’autostrada scoprivo sacche di miseria per me inimmaginabili, l’altra Italia. Il primo giorno sono entrata in una capanna dove c’erano due vecchie, ma a ripensarci non so quale età potessero avere, e ho chiesto quanti erano in famiglia per riempire la scheda del Comune. Una delle due mi ha risposto: “Tre. Io, mia sorella e lei”. Io ho guardato chi fosse lei, era la capra. Dava latte e formaggio e la consideravano una persona. Poi ho chiesto se avevano bisogno di qualcosa di caldo, avevano i piedi bagnati, indossavano cose di lana tutte bucate. E mi hanno risposto: “Di golf ne abbiamo già tre”»
«Quelli del nord, specialmente quelli, solo dopo capirono cosa fosse il meridione d’Italia», spiega Antonello Caporale in Terremoto SpA , «Fecero un capitombolo all’indietro di mezzo secolo e trovarono la povertà di vallate sconosciute, pendii aspri e lontani dal mare, lontani dagli occhi e dal cuore dell’Italia progredita […]. Non pensavano che fossimo ridotti così male, che il livello di precarietà, quando non di indigenza, fosse così abbagliante, fitto, acuto».
Una estraneità che, col passare degli anni e la progressiva scoperta di truffe e intrighi (più a Napoli e dintorni che in Irpinia e Basilicata) porterà a un ulteriore impoverimento e spopolamento delle aree colpite e a progressive diffidenze reciproche. Rafforzando al Nord gli stereotipi sui «terroni» inaffidabili e al Sud quelli sui padani cinici approfittatori. «Tutti posero l’accento marcatamente sullo spreco, sul clientelismo, sul malaffare», scrive Toni Ricciardi che con Generoso Picone e Luigi Fiorentino, firma Il terremoto dell’Irpinia , edito da Donzelli, ma «che le grandi opere furono appaltate quasi esclusivamente a grandi imprese del nord poco conta, che grossa parte dei finanziamenti per le cosiddette fabbriche in montagna fosse diretta all’imprenditoria del nord è solo un dettaglio». Ma ne scriviamo a parte.