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 2020  novembre 23 Lunedì calendario

La Raggi sfratta i medievalisti

Chi sia stato Pietro Fedele non sono in tanti a ricordarlo, oggi. C’è una via Pietro Fedele a Roma, fra i palazzoni del quartiere Appio Latino, in una zona dove la commissione toponomastica ha deciso di onorare storici più o meno famosi del passato. E c’è un viale Pietro Fedele, giustamente, nella sua città di Minturno, sempre sull’Appia, dove era nato nel 1873. Forse è inevitabile che non ci siano altre dediche né monumenti, perché Fedele non è stato soltanto uno storico importante, ma un servitore del regime, ministro della Pubblica Istruzione all’indomani del delitto Matteotti. Eppure la sua figura è emblematica dell’illusione che Mussolini aveva saputo creare, all’inizio, fra tanti uomini di cultura e di scienza: l’illusione che il fascismo, nonostante la sua tara originaria d’essersi imposto con il bastone e la rivoltella soffocando la libertà e violentando lo Statuto, fosse davvero una forza rigeneratrice capace di portare nuove energie nella vita italiana.
A guardare le sue foto, coi baffoni neri, potremmo scambiarlo per uno dei nostri emigrati che negli stessi anni si affollavano sulle banchine di Ellis Island: era uno che si era fatto da sé, il figlio d’un operaio e di una contadina che aveva studiato grazie allo zio prete, dal seminario di Gaeta era arrivato alla cattedra all’Università di Roma, alla Camera dei deputati, e nel 1925 al governo. Ci credeva davvero, che oltre al moschetto i fascisti avrebbero esaltato anche il libro, e negli anni in cui fu ministro si spese per rimettere in movimento tutto quel che si poteva, dagli scavi di Pompei ed Ercolano al ripescaggio delle navi di Nemi, creò la Direzione generale delle Biblioteche, e offrì una nuova sede nell’Oratorio dei Filippini, il capolavoro del Borromini in piazza della Chiesa Nuova a Roma, all’Istituto Storico Italiano per il Medioevo.
E qui bisogna che il lettore abbia pazienza. Perché nel nostro Paese la diffidenza verso la burocrazia che così spesso intralcia la nostra vita può indurre a un automatico pregiudizio negativo verso tutto ciò che si chiama Istituto, Consiglio, Commissione. E invece l’Istituto di piazza dell’Orologio (perché è lì, di lato, la porticina da cui si accede alle sale, dove sono passato tante volte fin da quando avevo vent’anni: io e tutti gli altri medievisti italiani, giovani e vecchi) è uno dei cuori pulsanti di quel corpo oggi un po’ scarnificato dai tagli, ma ancora ben vivo, che è la ricerca storica italiana. È un luogo di incontro, di discussione, di studio; è la casa editrice che stampa e mette a disposizione degli studiosi di tutto il mondo le fonti della nostra storia nazionale. È uno di quegli innumerevoli luoghi di cui è fatta una società: quei luoghi in cui gli individui smettono di essere isolati, e che possono anche essere conosciuti, in ciascun caso, da pochi, ma tutti insieme pompano il sangue nelle vene dell’intero paese.
Quel luogo, oggi, la burocrazia lo vuol distruggere, con lettera protocollata. È il verbo giusto, distruggere: perché non vuol dire nient’altro l’ordine impartito all’Istituto di sgombrare entro 90 giorni i locali dove risiedono da un secolo una biblioteca di centomila volumi, la collezione di quasi mille riviste italiane e straniere, un archivio che conserva la memoria della cultura storica italiana dall’Ottocento di Carducci ai giorni nostri. E non importa che nel caso specifico la burocrazia sia quella del Comune di Roma: è la stessa forza cieca che in tutta Italia da decenni chiude ospedali, tribunali, stazioni, obbedendo a illusori imperativi di razionalizzazione e di risparmio. La stessa che a Torino ha fatto sparire un luogo magico come i padiglioni dei bouquinistes in corso Siccardi, sicuramente appellandosi anche allora a chissà quali inoppugnabili ragioni di regolamento o di bilancio, se non a calcoli sbagliati come quelli che portano il Comune di Roma a pretendere dall’Istituto 25.000 euro di affitti arretrati, che secondo il presidente dell’Istituto, il prof. Miglio, non sono dovuti affatto (e lasciamo stare che se per ipotesi assurda fossero dovuti davvero, so che si raccoglierebbero in un giorno tra i 346 soci della Società Italiana dei medievisti). L’amministrazione della capitale fa ancora in tempo a ripensarci, se si renderà conto che in gioco non c’è soltanto il futuro di una istituzione di ricerca: c’è il posto che la storia del nostro Paese può e deve avere nella scala di valori del nuovo secolo. Un posto, si spera, non più misero di quello che gli intellettuali di un secolo fa s’illudevano le avrebbe riconosciuto il regime fascista.