Il Messaggero, 22 novembre 2020
Biografia di Alex Infascelli raccontata da lui stesso
Per le Buste paga due pezzi staccati
Con Mi chiamo Francesco Totti, la storia dell’ex capitano della AS Roma, ha fatto piangere mezza Italia, tutta Roma, e con buona probabilità avendo trovato il film distribuzione internazionale anche un pezzo del resto del mondo. Tutti lo vogliono, tutti lo cercano, come se quello del romano Alex Infascelli fosse l’imprevedibile risultato di un talento da scoprire. Eppure l’uomo dietro al successo del film su Totti (tratto dal libro di Paolo Condò Un Capitano, edito da Rizzoli, dal 5 dicembre anche in dvd), ha 53 anni, sei film e più di un centinaio di videoclip all’attivo, due David di Donatello, due figlie da due donne diverse e qualcosa che i coetanei Sorrentino, Garrone e Muccino non avranno mai: una vita da rockstar, con tutti gli accessori richiesti dal ruolo: sesso, droga e (molto) rock’n roll.
Papà Roberto era regista, il nonno produttore. Da bambino sulle ginocchia di chi si è seduto?
«Su quelle di Ringo Starr, mi faceva fare cavalluccio perché papà nel 1972 lo aveva scelto come protagonista di Blindman. Nel mio dna ci sono musica e cinema: papà era socio di Allen Klein, il manager dei Rolling Stones. Mio nonno Carlo ha inventato i musicarelli (i film musicali degli Anni Sessanta, ndr).
L’eredità di famiglia ha pesato?
«No, perché quando ho compiuto dieci anni mio padre è morto e la mia vita è cambiata completamente. L’ultima foto che ho con lui e mamma siamo su una panchina dell’isola Tiberina, nel 1976, durante le riprese di Febbre da Cavallo (il padre lo produsse, ndr). Poi il cinema è uscito dalla mia vita. E sono entrato nella musica.
Cosa suonava?
«La batteria. La mia carriera surreale mi vede suonare prima nelle cantine heavy metal di Roma, poi nel gruppo di Heather Parisi in Fantastico 8. Era il 1987. Avevo vent’anni e dopo quell’esperienza me ne andai».
Dove?
«A Los Angeles, La Mecca dell’hard rock. Avevo una fidanzata e l’ho raggiunta. Vendevo toner e lavavo le macchine, e a un certo punto mi hanno preso in una casa di produzione, la Propaganda. Quando ho messo piede sul set ho capito che era la mia vita».
Mollò la musica?
«No. Alcuni amici mi spinsero ad andare a Seattle, a fare un’audizione per i Pearl Jam. Gli serviva qualcuno per la tournée, alla fine si tennero il bravissimo batterista del disco. Rimasi là per un po’».
Con Propaganda ha lavorato per i Nirvana. Li ha conosciuti?
«Ero aiuto regista allo storico concerto al Paramount Theatre di Halloween del 1991. Se lo vedi, dal lato di Krist Novoselic ci sono io, con il ciak in mano. I Nirvana li conoscevo perché erano di Seattle. Quando ho lavorato con Totti ho avuto la stessa sensazione che ho avuto lavorando con Cobain».
Cioè?
«Hanno in comune la purezza dello sguardo dell’eletto, di chi riceve un dono e passa la vita a cercare di capire cosa farne. Però uno si è sparato in faccia, l’altro ha scelto di salvarsi, di fatto rimanendo a Roma. Se guardi le loro foto da bambini, c’è una somiglianza stranissima».
Si dice delle sue notti maledette: mentre stava con la moglie di Perry Farrell (cantante dei Jane’s Addiction, ndr) fece tre giorni di sesso con Courtney Love. Tutto vero?
«Fu molto veloce. Una roba di sesso consumata in un momento esplosivo, il grunge, durante il quale tutti volevamo solo impollinare ed essere impollinati. Fu prima che si sposasse con Kurt. Poi tornai in Italia».
Perché?
«Non volevo vivere da trapiantato. Forse perché mio padre è morto in viaggio, mentre era Francia».
E la droga? Ha detto di aver smesso con tutto nel 2001. Davvero?
«Sì, certo. Ma che ci frega? Ormai è roba vecchia».
«Frega» perché l’anno prima vinse tutto con Almost Blue: fu un nuovo inizio?
«È stato un picco. Ma è durato poco. Giusto il tempo di assaggiarlo, poi c’è stato l’11 settembre e il mondo è cambiato. Nel 2004 feci Il siero della vanità, che era un film grottesco e fuori dagli schemi, ma fu venduto come un thriller. La macchina del mainstream mi schiacciò: la gente andava al cinema aspettandosi di vedere Almost Blue 2. Per me fu uno shock».
E poi?
«Nel 2006 decisi con un amico, Lorenzo Mieli (figlio del giornalista Paolo, nonché presidente Fremantle Italia e ad di The Apartment, società entrambe coinvolte nel progetto Totti, ndr) di fare una cosa rivoluzionaria: far uscire il mio horror H2Odio solo nelle edicole. Ma avevo un piano ancora più estremo».
Quale?
«Netflix prima di Netflix. Mi sarebbe piaciuto che la gente potesse andare dal tabaccaio con la pennetta Usb, scaricarsi il film attraverso la rete Sisal, e portarselo a casa».
E invece?
«L’esperimento nelle edicole andò bene, ma non mi perdonarono la scelta di saltare le sale. Così sono uscito dall’atmosfera e non ci sono più rientrato. All’improvviso non ero più considerato un regista di cinema. Mi sono ritrovato a fare il cameriere».
Il cameriere?
«Sì, ma non lo considero un periodo buio. Ho ritrovato la spensieratezza. Pensavo soltanto all’oggi, senza prospettive né aspettative. Pensai di scrivere un film autobiografico, una cosa tra Bud Spencer e Un giorno di ordinaria follia».
Guadagnava 1300 euro al mese. Adesso?
«Non molto di più, lo assicuro. Il punto non è quello. Adesso sono abituato agli alti e ai bassi. Ho la pellaccia. Ci ho messo nove anni a fare un altro film, S for Stanley, dedicato a Emilio D’Alessandro, l’assistente tuttofare di Kubrick. L’ho fatto sapendo di non avere niente da perdere. Ho bussato a tutte le porte e nessuno credeva fosse interessante. L’ho autoprodotto».
Ora che è rientrato nell’atmosfera frequenterà i salotti giusti?
«Non frequento i salotti. Sto a casa. Faccio il papà. Tutti i miei amici fanno altri lavori. Mi sento solo con Paolo Sorrentino. Ci siamo trovati, anche se siamo pancia contro cervello. Ad avvicinarci sono stati i nostri figli, che sono amici».
Ha paura di invecchiare, come le rockstar?
«Io non vedo l’ora di invecchiare per tornare bambino. Sono cresciuto troppo in fretta. La morte di papà mi ha strappato via stupore e candore».
E adesso? Si gode il momento?
«Magari. Godermi il momento è un lusso che non mi posso ancora permettere».