Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2020
Ritorna "Abbasso la pedagogia" di Giampaolo Dossena
Dietro la porta rossa c’è uno scrigno, una macchina del tempo, una silente, vividissima, santabarbara di emozioni, stupore, sorriso e conoscenza. Dietro la porta rossa, c’è un mondo – che è ancora il nostro mondo, pur con distanza – che attende di essere recuperato, conosciuto; amato. O, forse, soprattutto, “giocato”. La porta rossa è al secondo piano di una casa al centro di Udine: qui Ida Sello (1890-1971) ha tenuto bottega, magazzino all’avanguardia nel suo settore che riforniva scuole, enti e asili (non era destinato al dettaglio), dagli anni 20 fino alla morte: impresa incantata (ma commercialmente accorta), pionieristica in fatto di giocattoli, gi(u)ochi di società, e, cito alla rinfusa da quel che ricordo di aver visto in una visita veloce, animali in legno e birilli, figurine e bambole, trombette e biglie, pennini e piume, “oche” grasse e tombole d’Etiopia, simil Pik Badaluk e Tirlimbirli, meccani e timbri, Ri-Ro-Ra e Mago Cif, puzzle e cubi, perline e carriole, trottole e dadi; e molto altro: oggetti incredibili, design e bellezza, qualità estetica prima che utilità e, sia mai, didattica. «Una scoperta archeologica»: così la definì il più profondo conoscitore di giochi – e loro, vaste, implicazioni culturali – che abbiamo avuto, Giampaolo Dossena (1930-2009). Il quale, a quella “scoperta”, dedicò un delizioso libro, dallo sviante, ma calzante, titolo di Abbasso la pedagogia che torna ora da Marietti 1820, che aggiunge così, all’ottimo bottino recente, una “novità” sostanziosa.
Ora però, prima e anche più che affrontare il “contenuto” del libro – la descrizione e la pubblica dichiarazione di esistenza di tale giacimento di passatempi d’altri tempi, accatastati, ancor oggi, senza definitiva catalogazione – va ridato giusto posto a Dossena (eccelso collaboratore di queste pagine) nel panorama letterario e intellettuale italiano. C’è un indizio, nel libretto. Cito: «Chi si interessa di storia e tecnica dei giochi, con un atteggiamento più o meno antropologico, alla Huizinga, alla Caillois, spesso non sa nulla di pedagogia. Non sembra se ne curassero né Huizinga né Caillois».
Sono, questi, i padri di Dossena, che qui li dichiara senza paura, e con cognizione di causa. E se Homo Ludens di Huizinga ebbe l’onore (e viceversa) di una bella (e non priva di critiche) prefazione di Umberto Eco, fu lo stesso Dossena a occuparsi del Caillois ludico. Huizinga-Caillois-Eco-Dossena: è un filone aurifero che, gratta dove vuoi, vengon fuori solo pepite. La scrittura di Dossena è di quelle che – come per Piero Camporesi – oltrepassa e sconvolge le normali, inutili, etichette. Prosa breve, elegante, struttura avvolgente, ipnotica, divagante, lieta e sapiente: una girandola di richiami, di allusioni, di rimandi che rivela, ma non ostenta, un’imbarazzante erudizione (utile a spernacchiare gli accademici approssimativi), che travalica le specificità e, però, sa quando ritrarsi: Dossena riesce più che a mostrare la sapienza su un determinato gioco a ispirare la voglia di saperne di più e di giocarlo con consapevolezza. E la citazione di due opere, come l’eccentrica Storia confidenziale della letteratura italiana (dove applica al paludatissimo, e quanto noioso genere, le sue capacità affabulatorie) e il nostalgico e spiritoso Mangiare banane nel quale la zavorra, e lo dico in senso buono, della memoria personale (ma collettiva), che lui aveva ingombrante e precisa, serva a collocare l’opera di Dossena.
Un autore, parole di Fofi che trascrivo e confermo in pieno, che «osava preferire il breve al lungo, il comico al serioso, il ludico all’edificante, il fertile all’inerte, il sottotono alla pompa e il Novellino al Decameron. Parente dei grandi bizzarri e dei grandi “minori” e dei grandi enciclopedici della nostra storia letteraria, i suoi scritti sono destinati a restare». Così è: ho riletto, in questi giorni, molti suoi articoli, digitalizzati meritoriamente da archiviodeigiochi.it: pochi scrittori – scrittori, dico, non giornalisti – hanno la sua libertà, la capacità di comunicare col lettore, l’entusiasmo, l’ironia: la bellezza della conoscenza. La voglia di giocare e sapere; ché il gioco, si sa, è roba da prendere seriamente.
E perciò, veniamo a noi: questa collezione Ida Sello, salvata con amore e rispetto dalla pronipote Maria e fatta da migliaia di pezzi straordinari, per rarità, oggettiva qualità estetica e ludica, per capacità di rivelare o evocare un mondo passato, meriterebbe collocazione, studio e fruizione in un museo, a Udine o altrove (e magari alla Fondazione Benetton di Treviso: sarebbe perfetta) per non disperdere un patrimonio che, miracolosamente, è scampato intatto al tempo e documenta giochi, giocattoli e modalità di divertimento e apprendimento che meravigliano e commuovono. Ma non è questione di nostalgia, di un come giocavano: è questione di autopercezione di una società; di identità. Dossena scrive prima dell’avvento definitivo degli schermi, che hanno smaterializzato molte cose (la musica, il cinema, la tv) e l’uso stesso delle mani.
L’intermediazione di uno schermo, tablet, pc o smartphone, simula talora il gioco, ma spesso non lo sostituisce: ce ne faremo una ragione, epperò, ogni tanto, resta la forza ingenua e il sapore di un gioco da tavola, una tombola, un puzzle. Di una partita di biglie a inseguimento su terreni ruvidi, di un aquilone che fruscia nel cielo terso.
Resta l’apertura verso un’infanzia irrimediabilmente (gioiosamente) analogica e povera, con giochi fatti da pezzi trovati (legnetti o pietre) e regole inventate lì per lì – vedi il recente Camilleri sui suoi giochi d’infanzia, struggente e allegro –, sudore e ginocchia sbucciate, vento, amici e felicità all’aria aperta. In un suo aforisma, G. B. Shaw scrisse: «L’uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare». Dossena chiude così il libretto su Ida Sello: «Io non sono una persona normale. Io faccio quel che mi pare. Come spero facciate voi senza seguire le mode (moda di giocare il gioco x oggi, moda di non giocare più il gioco x domani). Domanda: “Dottore, non gioco mai: è grave?”. Risposta: “Credo di sì”». Giocate ancora, con tutta la necessità che l’atto richiede. Da qualche parte c’è, per ciascuno di noi, una porta rossa da aprire. E ritrovare il tempo andato. Ma non perduto.
Tocca a te!