Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2020
Psicologia dello smart working
Mio nipote è un ingegnere. Lavora in una società italiana che fa sofisticati contatori e li vende in giro per il mondo. Da qualche mese non prende treni e aerei, sta di fronte a un computer nella casa di campagna. Continua a lavorare in solitudine, gli altri sono lontani. Partendo da questa situazione di isolamento proviamo a spingerci oltre con l’immaginazione. Supponiamo che le persone, dentro e fuori la sua società, diventino angeli dal cuore puro e dall’intelligenza sovrumana. Anche da lontano tutti si capirebbero all’istante, non ci sarebbe bisogno né di ordini né di gerarchie e l’organizzazione piramidale finirebbe per sciogliersi. Avremmo singoli professionisti che uniscono le loro competenze allo scopo di portare a termine progetti comuni. Questa immaginaria frammentazione è l’opposto del sogno di un unico stato centrale. Un secolo fa, in Russia, si cercò di mettere in pratica questo sogno e divenne presto un incubo. Era stato prosciugato il mare del mercato: le aziende non riuscivano più a navigare grazie ai venti della concorrenza e alle correnti dei prezzi.
Un giovane economista inglese, Ronald Coase, capì l’ostacolo costituito da quello che Graham Greene chiama il fattore umano. Tale ostacolo rende impraticabile la totale decentralizzazione e anche il suo opposto.
Il 10 ottobre 1932 Ronald Coase scrive una lettera, saggiamente conservata dall’amico Fowler: «Se ci fosse concorrenza atomistica, se cioè ogni transazione che implica l’uso del lavoro altrui, di materiali o di denaro, fosse oggetto di una transazione di mercato, non ci sarebbe bisogno di alcuna organizzazione. Nei fatti non è così. Perché? Pensa al disagio (cioè al maggior costo) se in ogni circostanza in cui qualcuno lavorasse con qualcun altro ci dovesse essere una transazione di mercato». Per eliminare tale disagio congeliamo il mare del mercato in imprese organizzate, dotate di gerarchie e strutture di comando. Coase racconta di aver cercato «le ragioni dell’esistenza delle imprese in fabbriche e uffici piuttosto che negli scritti di economisti … quando gli economisti si rendono conto di essere incapaci di analizzare che cosa sta accadendo nel mondo reale, inventano un mondo che possono maneggiare …». Il giovane economista andò a vedere come stavano le cose sul campo, visitò le nuove industrie automobilistiche negli Stati Uniti, scoprì l’equilibro tra il “disagio” delle transazioni e i vantaggi della loro assenza all’interno delle aziende.
Ecco perché in una data azienda diventa più conveniente comprare qualcosa invece di farla in casa e, di conseguenza, perché quell’azienda non ha dimensioni né più grandi né più piccole. Oggi sappiamo che il «disagio» inerente alle transazioni di mercato è incorporato nel cervello umano, plasmato in mondi antichi, in mondi privi di spirito angelico e di razionalità pura.
Quest’anno la pandemia ha costretto le aziende a un grande esperimento naturale: «fare le cose in casa» non vuol dire farle nella «stessa casa», tutti insieme in un medesimo ufficio, edificio, distretto. Si può provare a lavorare in modi che ai tempi di Coase erano impensabili perché non c’erano gli odierni sistemi computer/rete, ben più potenti della posta e del telefono. Si possono condurre riunioni e negoziazioni collegando miriadi di uffici decentrati. Per capire la portata di questo grande esperimento naturale abbiamo bisogno di strumenti che siano in grado di scomporre quello che era stato genericamente etichettato come «il disagio delle transazioni».
Non basta dire che se noi capissimo all’istante le emozioni e i contenuti delle menti altrui, e se non fossimo né stupidi né cattivi, tale disagio diminuirebbe e ci avvicineremmo al sogno «atomistico» di Coase. Bisogna in positivo scoprire come funzionano e come si possono migliorare le competenze di chi lavora dentro un’azienda individuando i modi per ridurre i costi di transazione senza ricorrere ad autoritarismi. In tal caso le persone, anche se lavorano fisicamente distanti le une dalle altre, avranno lo stesso spirito di corpo, entusiasmo e tenacia di quando potevano incontrarsi con i loro leader e colleghi stando in piacevole compagnia.
Per misurare il successo e i limiti di questo grande esperimento naturale a cui ci ha costretti la pandemia abbiamo bisogno del lavoro di economisti aziendali che conoscano le scienze cognitive. Più specificatamente di economisti che studino quella che è la migliore miscela di capacità e competenze. Gli uomini non sono angeli e hanno dei limiti insuperabili di attenzione, memoria e razionalità ma tali limiti possono essere aggirati con una educazione alle migliori competenze. Non le competenze tecniche di una specifica area aziendale, ma quelle trasversali comuni a tutti i posti di lavoro.
E qui entrano in azione i centri di ricerca e insegnamento come quello fondato nel 2012 all’università Ca’ Foscari di Venezia da Anna Comacchio, Fabrizio Gerli e Sara Bonesso. Il centro ha appena pubblicato due libri interessanti in cui si fa il punto delle ricerche e delle loro applicazioni. Viene presentato in dettaglio l’insieme di trentuno competenze fondamentali, tra cui: orientamento al risultato, iniziativa, adattabilità, empatia, leadership, gestione dei conflitti, persuasione, gestione dei gruppi, consapevolezza di sé, autocontrollo, riconoscimento di schemi, pensiero sistemico, comunicazione verbale, e così via. Con strumenti così analitici si possono fare studi per capire in che misura il grande esperimento naturale del lavoro decentrato abbia (o non abbia) funzionato e, inoltre, progettare le condizioni per un nuovo equilibrio tra decentramento e soddisfazione sul lavoro.
Il 9 dicembre 1991, in occasione del Nobel, Ronald Coase ricorda il suo articolo del 1937 e l’antica utopia di Lenin della Russia come un’unica grande fabbrica. Molti guai sarebbero stati risparmiati studiando, riflettendo, pensandoci prima, invece di aspettare il disgregarsi di un esperimento innaturale che ha prodotto soprattutto povertà e infelicità.