Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2020
Le lettere di Dostoevskij, un fiume in piena
In calce a una missiva del 18 gennaio 1856, indirizzata al poeta Apollon N. Majkov, Fëdor Dostoevskij confessa di non riuscire a sopportare M.me de Sévigné. Il motivo? Eccolo: «Scriveva troppo bene le sue lettere». Occorre essere comprensivi. La raffinata dama che adorava Torquato Tasso, che con sapienti mosse signoreggiava su malignità e apparenze, descrisse magistralmente nel suo epistolario il Seicento francese: la corte, filosofi quali Arnauld e Malebranche, letterati come Corneille, Racine e l’ammiratissimo La Fontaine. Dostoevskij no; desiderava fissare sui fogli urgenze, esprimere un giudizio, allontanare confessandola un’ansia.
Ettore Lo Gatto ricordò che le lettere del grande russo erano distanti da ogni liturgia barocca. Curando una scelta dell’Epistolario del magnifico Fëdor, che uscì in due volumi per le Edizioni Scientifiche Italiane nel 1950 (ripubblicato, sempre in due tomi, da Aragno nel 2017 con il titolo I demoni quotidiani), notò che «non una sola lettera di Dostoevskij fu scritta col pensiero che essa potesse essere letta da altri che non fosse il destinatario o persona a lui vicina».
D’altra parte, queste missive del russo furono raccolte per la prima volta – circa 150 – nel 1883 dai critici Miller e Stràchov a Pietroburgo, insieme a ricordi, pagine del taccuino d’appunti (Biografija, pis’ma i zametki iz zapisnoj knižki F. M. Dostoevskago). Un lavoro realizzato velocemente, con lacune, gremito di prudenze verso persone ancora viventi; comunque una scelta che lasciò notevole traccia nella ricostruzione della figura di Dostoevskij, anche perché su di essa lavorerà la maggior parte di storici e biografi tra Otto e Novecento.
La raccolta di Lo Gatto offriva poco più di duecentodieci lettere; una nuova traduzione a cura di Alice Farina, alla quale hanno partecipato Giulia De Florio e Elena Freda Piredda, appena pubblicata da il Saggiatore, ne contiene 455. Non è l’integrale, giacché sono state escluse poche missive con dettagli burocratici o particolari non rilevanti, ma è un lavoro importante perché mette a disposizione innumerevoli indicazioni che consentono di avvicinarsi a uno dei più grandi scrittori della modernità. Quello che Nietzsche – mai s’incontrarono – considerava un fratello. Vedendo un libro di Dostoevskij in una libreria a Nizza, disse semplicemente: «La voce del sangue».
Narratore d’idee, esegeta di problemi fondamentali, nelle pagine dello scrittore-filosofo russo s’incontrano Dio e il male, la libertà e gli abissi dell’anima. Scrive Alice Farina: «Quando leggiamo le sue opere, questo fiume ci travolge... Nelle lettere, addirittura, esonda e ci invade. Il ritmo febbrile si fa più serrato e a volte sconclusionato, la proliferazione dei pensieri travolge l’autore e ci attrae in un vorticoso gioco di ricerca di senso». Come se Fëdor, dimenticato il patto con la narrazione, nelle missive «scagliasse via l’ultimo strato di pudore: e così facendo, andasse ad assottigliare ancora di più la distanza tra la parola e la verità».
Nell’epistolario c’è un universo da scoprire, senza gli inchini cari a M.me de Sévigné. Ci sono giudizi errati, come nella ricordata lettera a Majkov, dove si legge che «L. T. non riuscirà a scrivere molto», aggiungendo per fortuna: «può anche essere che mi sbagli» (il riferimento è a Lev Tolstoj). E tra le molte c’è la nota epistola a Natal’ja D. Fonvizina (inizio 1854) in cui afferma, con la forza dei mistici più intensi presenti nella Filocalia, che «se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è al di fuori della verità, e davvero la verità si trovasse fuori di Cristo, preferirei comunque rimanere con Cristo piuttosto che con la verità».