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 2020  novembre 22 Domenica calendario

La Trasfigurazione nascosta di Bill Viola

Nel rapporto con l’arte del passato che emerge da questi sondaggi spira un’aria di famiglia che travalica le generazioni e le patrie degli artisti. Le affinità morfologiche e funzionali si compongono in una sorta di mappa, che ricorda alla lontana l’Atlante Mnemosyne a cui Warburg lavorò negli ultimi anni di vita, raccogliendo in grandi tavole immagini fra loro imparentate da tenui legami visivi, intese a riassumere i percorsi della memoria culturale europea. La parola chiave per definire e raggruppare queste immagini fu Pathosformeln (formule di pathos), una coniazione di Warburg che però, in anni non lontani, venne lanciata tal quale anche da Sergej Ejzens?tejn, che di Warburg non sapeva nulla (ma entrambi avevano alle spalle le pratiche artistiche dell’espressionismo tedesco).

Sepolta per più di mezzo secolo negli archivi, Mnemosyne conosce oggi una rinnovata fortuna (hanno appena aperto a Berlino due mostre che le sono dedicate), e la sua assidua registrazione di modalità rappresentative che rispecchino le tensioni del tempo sembra convenire singolarmente ai nostri anni. Un altro degli artisti presenti in questo libro, William Kentridge, ha allestito lungo il Tevere il grandioso fregio Triumphs and Laments (2016), che con sapiente anacronismo impagina un ampio ventaglio di figure – dall’arco di Tito a foto di cronaca con la morte di Pasolini e di Aldo Moro, film come La dolce vita, cortei di migranti -, raccolte secondo un pensiero analogico e associativo. Quasi a dispiegare in forma monumentale una Mnemosyne del nostro tempo, rilanciata come un manifesto urbano con le sue formule di pathos cariche di storia. Ma la prima Pathosformel, nel teatro d’ombre e di controfigure che questo libro esplora, è quella dell’artista al lavoro: la sua abilità o libertà – ma la parola giusta è “sprezzatura” – di operare dentro la tradizione e con la tradizione, ma rendendola talvolta irriconoscibile. Di indirizzare la ricerca artistica verso l’intensificazione degli affetti e degli effetti in un dialogo, più intenso quanto più nascosto, con l’arte del passato. Chi sarà mai la figura che sorgendo dall’acqua ascende al cielo in una lama di luce, mentre sulle rocce alle sue spalle quattro compagni dormono nella notte? Nel video di Bill Viola (2002) riconosciamo il fantasma di celebri iconografie cristiane, come la Trasfigurazione o l’Agonia nell’Orto, dove Cristo sul monte sovrasta i discepoli addormentati. Eppure non ci sono gesti identici, derivazioni puntuali. La tradizione figurativa si articola non nelle strettoie di un tema, ma in un linguaggio visuale che manipola la corporeità per esprimere spiritualità, allestendo un teatro metaforico che fa leva su un registro “sublime”.
Ma che cosa s’intende per “tradizione artistica”? In queste mie Incursioni, ho tenuto a mente le risposte complementari di due grandi studiosi fra Otto e Novecento: Julius Schlosser e Aby Warburg, nati entrambi nel 1866 (come Croce). Schlosser punta sulla trasmissione del know how di bottega e del repertorio d’immagini mentali, talora tradotto in diligenti taccuini ma sempre soggetto a radicali trasformazioni. Per Warburg, “tradizione artistica” designa un meccanismo espressivo che si nutre di formule convenzionali, e però ne mette allo scoperto, attualizzandolo di continuo, l’ardente nucleo emotivo. Un deposito di memoria culturale che può serrarsi come un sepolcro, ma anche risorgere a nuova vita, come i gesti greco-romani che prendono nuova cittadinanza nel Rinascimento: «formule di pathos» (Pathosformeln), che inglobano e perpetuano la memoria culturale. Per Warburg come per Schlosser, l’innovazione è ingrediente essenziale della tradizione.
L’arte contemporanea rilancia spesso formule espressive, sperimentazioni stilistiche, strategie compositive evocandole dal passato, ora citandole espressamente ora manipolandole per occultarne l’origine, e questo libro ne offre qualche buon esempio. Quando Marcel Duchamp, in un ironico tableau vivant (1937), si taglia la testa al cospetto della compagna Mary Reynolds, si sta travestendo da San Giovanni decollato per fare il verso a pittori del tempo che fu (compreso Caravaggio)? E perché allora semina il suo teatrino fotografico di indizi dionisiaci (un vaso da simposio, foglie d’edera...), e con triplo salto mortale balza all’indietro, fino a Orfeo decapitato dalle Menadi? Duchamp notoriamente ripudiava la tradizione artistica, ma qui essa – come residuo, rifiuto, rimasuglio – c’è ancora tutta. Dioniso è protagonista segreto anche del Rito di Ingmar Bergman (1968): è il dio delle Baccanti di Euripide, tragedia da lui amatissima, ma anche la fresca memoria del dionisismo di quegli anni, rivendicazione di una libera morale esplorata anche da Pasolini in Teorema. Il film si conclude con un sacrificio umano, dopo una cupa confessione luterana (il confessore è lo stesso regista), ma al centro della trama è il rito bacchico, potente proiezione metateatrale di un affresco pompeiano e di un ancor più clamoroso antefatto, le maschere del teatro greco.
Gli storici dell’arte usano un ricco vocabolario per definire, in casi come questi, il rapporto fra l’artista e la sua “fonte”: allusione, appropriazione, citazione, confronto, influenza, ispirazione, parafrasi, pastiche, prelievo, prestito, ripresa, traslazione e così via. Questa proliferazione lessicale copre una vasta gamma di sfumature, ma nasconde la difficoltà di ammettere un principio unificante, che possa collocare l’arte contemporanea nella longue durée della storia dell’arte. La tradizione artistica, appunto.
Anche i più espliciti riusi di formule consacrate acquistano, a una diagnosi ravvicinata, qualcosa di inafferrabile. Fra i casi analizzati nel libro, la Morte di Neruda di Renato Guttuso (1973) presuppone il lungo esercizio del pittore intorno alla Morte di Marat di David, cioè a una delle più frequenti sigle patetiche dell’arte europea, il “braccio della morte” che pende ormai inerte. Far centro sulla filiazione David-Guttuso vuol dire evocarne il sottotesto storico (dai sarcofagi romani a Raffaello, a Caravaggio). Ma anche l’indecifrabile vitalità iconica, che ne autorizza oggi il riuso meramente estetico (per una Lady Gaga insanguinata, 2013) o marcatamente politico, per il ritratto di un catador (raccoglitore di spazzatura) brasiliano (Vik Muniz, 2010).
I dieci studi di caso raccolti in questo libro invitano, nonostante la diversità delle tecniche (pittura, scultura, fotografia, cinema, videoarte), a evidenziarne qualche costante, verificando lo spazio storico entro il quale l’arte del passato, vivo veicolo di memoria sociale, si fa agente di innovazione, dando voce a emozioni e tensioni del nostro tempo. The Visible World (2018) di una giovane artista americana, Dana Schutz, reinventa il mito di Leda per riflettere sulla condizione femminile. Il segno pittorico di Tullio Pericoli, quando incide paesaggi marchigiani su tele intonacate (2017), non ripercorre solo antiche mappe o sentieri di uomini e di armenti, ma anche l’antica impronta dell’aratro al suolo; e la terra che trema, e le case in rovina. Le foto di Mimmo Jodice filtrano ruderi e statue in frantumi attraverso uno sguardo non solo archeologico, ma educato alla lezione di Piranesi, Hubert Robert, Lucio Fontana. Il post-sovietico Grisha Bruskin ripete ossessivamente le icone staliniane di “compagni” esemplari, galleria di defunte virtù comuniste, ma per poi seppellire i suoi bronzi in Toscana facendone altrettanti reperti da scavare; e intanto riannoda il filo con icone ortodosse o dimenticati cataloghi medievali di arti e mestieri. Anche un tema radicalmente nuovo come gli alberi di Penone implica una densità materica e una temporalità metaforica cariche di storia. Travi e tronchi da lui scolpiti, potente figurazione che congiunge arte e natura, identificano l’artista con la materia in cui va operando e rivendicano alla scultura la dignità di un evento naturale, secondo un’estetica della meraviglia che richiama Bernini e le Metamorfosi di Ovidio, dove gli umani trasformati in alberi implicano la segreta continuità fra spazi urbani e voce dei boschi.
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Nel rapporto con l’arte del passato che emerge da questi sondaggi spira un’aria di famiglia che travalica le generazioni e le patrie degli artisti. Le affinità morfologiche e funzionali si compongono in una sorta di mappa, che ricorda alla lontana l’Atlante Mnemosyne a cui Warburg lavorò negli ultimi anni di vita, raccogliendo in grandi tavole immagini fra loro imparentate da tenui legami visivi, intese a riassumere i percorsi della memoria culturale europea. La parola chiave per definire e raggruppare queste immagini fu Pathosformeln (formule di pathos), una coniazione di Warburg che però, in anni non lontani, venne lanciata tal quale anche da Sergej Ejzens?tejn, che di Warburg non sapeva nulla (ma entrambi avevano alle spalle le pratiche artistiche dell’espressionismo tedesco).
Sepolta per più di mezzo secolo negli archivi, Mnemosyne conosce oggi una rinnovata fortuna (hanno appena aperto a Berlino due mostre che le sono dedicate), e la sua assidua registrazione di modalità rappresentative che rispecchino le tensioni del tempo sembra convenire singolarmente ai nostri anni. Un altro degli artisti presenti in questo libro, William Kentridge, ha allestito lungo il Tevere il grandioso fregio Triumphs and Laments (2016), che con sapiente anacronismo impagina un ampio ventaglio di figure – dall’arco di Tito a foto di cronaca con la morte di Pasolini e di Aldo Moro, film come La dolce vita, cortei di migranti -, raccolte secondo un pensiero analogico e associativo. Quasi a dispiegare in forma monumentale una Mnemosyne del nostro tempo, rilanciata come un manifesto urbano con le sue formule di pathos cariche di storia. Ma la prima Pathosformel, nel teatro d’ombre e di controfigure che questo libro esplora, è quella dell’artista al lavoro: la sua abilità o libertà – ma la parola giusta è “sprezzatura” – di operare dentro la tradizione e con la tradizione, ma rendendola talvolta irriconoscibile. Di indirizzare la ricerca artistica verso l’intensificazione degli affetti e degli effetti in un dialogo, più intenso quanto più nascosto, con l’arte del passato.