Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2020
Debiti mondiali al 365% del Pil
La pandemia ha sommerso il mondo in un mare di debiti. Non che la situazione fosse del tutto sotto controllo prima dello scorso marzo ma le misure d’urgenza intraprese dai governi per contrastare gli effetti della pandemia sull’economia reale hanno esasperato il quadro: tanto che il 2020 si dovrebbe chiudere con un debito pubblico globale superiore al Prodotto interno lordo, più di quanto non fosse alla fine della Seconda guerra mondiale.
Il Fondo monetario internazionale (che stima una contrazione del Pil del 4,4% per quest’anno e un rimbalzo del 5,2% nel 2021) indica che le politiche fiscali sono state potenziate di 11mila miliardi di dollari e questo porterà il debito a sorpassare il Pil, tanto da sbilanciare il rapporto al 101,5%. Il conteggio dei Paesi che hanno visto nel frattempo balzare l’indebitamento governativo oltre i livelli del proprio prodotto interno lordo è salito a 30. Lo scorso anno, tanto per avere un paragone evidente, l’elenco dei Paesi “spendaccioni” si fermava a 19. A parte il Giappone – che da tanti anni fa storia a sé con l’esperimento di una politica fiscale ed economica ormai non più distinte e che guida questa classica con un debito fiscale pari al 266% del Pil – stanno peggiorando le cifre della Grecia (balzata al 205%) e dell’Italia (161%), medaglia di bronzo in questa non certo meritoria classifica. Segue il Portogallo (137%) ormai tallonato a ruota dagli Stati Uniti che in attesa di approvare il nuovo piano di stimoli di almeno 2mila miliardi di dollari hanno visto nel frattempo decollare il rapporto al 131% (rispetto al 108% del 2019). Ragionando per aree geografiche c’è un altro dato che balza subito all’occhio: il debito/Pil del Paesi del G7 è decollato dal 118% al 141%, quello dell’area euro dall’84% al 101% (in attesa del Recovery plan) mentre resta sotto controllo quello dei Paesi emergenti (dal 52% al 64%).
Il debito aggregato
Osservare però gli effetti della pandemia solo con la lente di ingrandimento del debito pubblico sarebbe parziale. Andando più in profondità e allargandoci al debito aggregato – che include quindi anche quello delle famiglie e delle imprese – emerge un quadro ancor più complicato. Secondo i calcoli dell’Iif (Institute of international finance) aggiornati al terzo trimestre dell’anno, il debito globale è aumentato nei primi 9 nove mesi del 2020 di 15mila miliardi di dollari, raggiungendo la cifra record di 272mila miliardi, corrispondenti al 365% del Pil atteso a fine anno. Più consistenti gli effetti nei Paesi sviluppati il cui debito cumulato dei tre grandi attori in campo (Stati, famiglie e imprese) ha raggiunto il 432% del Pil, 50 punti percentuali in più rispetto al pre-Covid.
La mina dei Paesi emergenti
I Paesi emergenti – che come visto hanno un debito pubblico sotto controllo – balzano in area 248% (rispetto al precedente 222%) includendo la cifra del debito privato. Su questo fronte preoccupa la crescita del debito in dollari, salita a 76mila miliardi, che rende vulnerabile questa area geografica in caso di aumento dei tassi di interesse Usa e del dollaro. Ipotesi non da escludere dato che dall’ultimo sondaggio sui gestori condotto da BofA il 73% dei partecipanti si aspetta nel 2021 un irripidimento della curva dei tassi Usa, fino a un balzo di 100 punti base dei rendimenti a 10 anni.
La nuova normalità
La grande domanda a questo punto è se i governi, di concerto o meno con le banche centrali, riusciranno mai a ritornare indietro. I Paesi riusciranno a ridimensionare politiche fiscali e politiche monetarie su livelli più consoni a quella che un tempo non molto lontano – prima del crack Lehman del 2008 per intenderci – definivamo normalità? Secondo il capo economista del Fmi, Gita Gopinath e Victor Gaspar, responsabile del Fiscal Monitor del Fmi, gli Stati dovrebbero pensarci due volte prima di riprendere a tagliare la spesa perché c’è il serio rischio di stroncare sul nascere la ripartenza economica. È chiaro che ci troviamo in un territorio inesplorato, per certi versi persino fuori dai manuali della dottrina economica, se consideriamo tanto l’ammontare monstre del debito aggregato quanto i bilanci delle banche centrali, mai così gonfi di titoli. Basti pensare che la Bce detiene titoli per quasi 7mila miliardi di euro, ovvero il 64% del Pil della propria area di competenza. Segue la Fed con 7.000 miliardi di dollari (poco meno di 6mila mld in euro), equivalenti al 32% del Pil Usa.
Il ping pong tra politiche fiscali e politiche monetarie consente ai mercati finanziari di galleggiare su questa enorme liquidità. E non è un caso se, nonostante il crollo del Pil nel 2020, le Borse abbiano superato il valore di tutti i tempi (95mila miliardi di dollari). Così come non è un caso che il valore dei bond globali abbia oltrepassato per la prima volta nella storia il livello di 60mila miliardi di dollari. L’enorme leva finanziaria su cui si regge oggi l’economia globale non solo rimanda al futuro i problemi dell’oggi. Ma crea sin da subito un potente e dannoso effetto collaterale: i tassi ultrabassi delle banche centrali rendono il sistema meno efficiente nel suo complesso perché mantengono in vita tutti i debitori fragili i quali, avendo meno preoccupazioni per il rimborso dei loro debiti, possono permettersi di conservare la loro struttura inefficiente svantaggiando le imprese sane e alterando la naturale competitività del mercato.