la Repubblica, 22 novembre 2020
Su ”La dannazione” di Ezio Mauro (Feltrinelli)
Quando si spinge molto indietro nel tempo – e cento anni sono tanti – la cronaca può sfidare la storia addirittura con successo, ma reca in sé qualcosa dello spiritismo. «Nel vuoto silenzioso del teatro – scrive Ezio Mauro nelle prime pagine de La dannazione: 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo(Feltrinelli) – un mattino ho inseguito le sopravvivenze di quei giorni, camminando sul palcoscenico dove fu pronunciata la scomunica di Mosca, provando a rintracciare in platea la poltrona venerabile di Turati, il padre del partito, sostando nella mezza luce del palco che nascondeva Gramsci...».
Ora, nessuno può mettere in dubbio il rilievo del congresso di Livorno da cui nacque il partito comunista – e chi ha più di 50 anni ha fatto in tempo a vederne la stagione terminale, quindi la fine di quella grandiosa e tempestosa vicenda. Sennonché proprio il fatto che quella esperienza sia oggi del tutto conclusa, senza riscatto né ricominciamento, assegna al giornalismo la libertà e lo slancio di far tornare in vita i protagonisti, ma con essi le atmosfere imprevedibili, le mezze parole, gli oggetti di scena, le figure minori: l’altra faccia insomma, la più vera e a modo suo conturbante, della scissione come atto fondativo e coazione a ripetere, trappola congenita e peccato originale della sinistra.
Così la scrivania di Lenin, coperta di tela cerata nera, appare agli occhi del figlio di un compagno italiano che se l’è voluto portare al Cremlino; la rivoluzione rivive nelle lettere d’amore di Anna Kuliscioff: «Ti scrivo un po’ come ubriaca, e perché ho dormito poco perdendomi per le vie di Pietrogrado e nei sogni avveniristici...»; così come il profilo di Gramsci si staglia in una splendida pagina di Gobetti che arriva a descriverlo, sorpresa, «talvolta quasi feroce».
Storia umana, per lo più, là dove il colpo d’occhio e il ritmo narrativo a presa diretta si mettono al servizio degli eventi. Il sanguinoso ammutinamento dei bersaglieri ad Ancona, lo sviluppo industriale come levatrice dei consigli di fabbrica, l’inaudita timidezza del giovane Togliatti che prima del comizio d’esordio deve quasi ubriacarsi ai piedi del palco. Tutto si condensa nel fervore della città del congresso che accoglie i delegati italiani, l’ospitalità semi- clandestina ai risoluti ambasciatori di Mosca (ufficialmente due, un terzo forse rimane nascosto); l’ardua messa in opera di intercettazioni telefoniche da parte del governo (Giolitti). Racconto necessariamente corale, là dove la varietà integra le ragioni di quel passaggio d’epoca riempiendo fruttuosamente quel vuoto che di solito viene a crearsi, sempre a detta di Gramsci, fra «programmi sonori» e «fatti miserabili» – con l’avvertenza che assai di rado un cronista li troverà tali.
Perché sì, nel merito politico della scissione, si capisce benissimo che l’Italia era sull’orlo della guerra civile; che lo scontro fra riformisti e bolscevichi fu duro, ma tutto sommato lineare, senza che il grande centro massimalista, parolaio e confusionario, riuscisse anche solo a contenerlo. Così come appare evidente che la Russia dei Soviet, superba e disperata nel suo vittorioso isolamento, forzò la mano al congresso. Tutti infine, di qualunque frazione, erano consapevoli della solennità del momento. Insomma doveva andare così.
Ma al dunque, e di nuovo: ciò che è più prezioso della ricostruzione — un vero soll ievo in questo tempo di visioni aride, oscene e sdolcinate – è che ancora il giornalismo di documenti e scrittura riesca ancora a evocare, a raccontare, a far capire: l’eredità latente dell’anarchia, i fantastici nomi dei giornali del primissimo movimento operaio ( Il Pane, ma c’erano pure Lo Scamiciato e perfino Il Pellagroso ), i versi delle canzoni, il ragazzo Silone che prende la parola, la Torino geometrica, spietata e struggente del primo dopoguerra, con la “Signorina” Pia Carena, vestale dell’Ordine nuovo, e le passeggiate in collina con il barbone Black, l’equivoco che porta gli operai sovietici ad osannare il riformista dalla lunga barba bianca Ludovico D’Aragona, il sapore dell’olio di ricino delle squadracce fasciste, la pistola che a un certo punto sfodera sulla tribuna l’impetuoso bolscevico Nicola Bombacci, destinato a finire – misteri degli uomini, paradossi della storia – appeso con Mussolini a piazzale Loreto.
In questo impegno di rigenerazione non sfugge a Ezio Mauro il fatto che la rottura si consuma fra due teatri. Ecco perciò gli addobbi, le pitture, i garofani del “Goldoni”, e la beneficienza, i canti dai palchetti, le zuffe in platea, i giornalisti ammucchiati nella buca dell’orchestra, l’assalto ai telefoni; ecco il compagno Graziadei che durante il suo intervento si scalda, slaccia la cravatta e trangugia un bicchiere di vino, ecco a un certo punto un piccione che sorvola la platea. E poi l’ex teatro San Marco, dove l’indomani della conta finale si riuniscono infreddoliti i fuoriusciti della frazione comunista: quattro lampade di fortuna montate in fretta illuminano un magazzino militare senza sedie dove piove dal tetto, ma si stende il primo manifesto del futuro Pci (al momento Pcd’I): «Stringetevi attorno a noi, accoglieteci come il solo e vero strumento...».
E alla fine sarà ingenuo, però viene da chiedersi se ci fosse un qualche sentore del destino cui tutti andavano incontro. E la risposta, tirando a immaginare, è che si avvertiva in quel momento la potenza di un mito inconfutabile, l’eco di un’autentica trascendenza, un fuoco di fede che non si fatica a definire religioso e che costrinse i socialisti e i comunisti a prendere la propria strada, spinti com’erano dal duplice imperativo della Verità e della Volontà. Fin troppo facile a distanza di un secolo concludere che furono loro stessi a scontare per primi questo peccato. Colpisce piuttosto come al momento dell’addio da entrambe le parti si prefigurasse un futuro ricongiungimento. Che però mai c’è stato, nemmeno quand’era troppo tardi. Riconoscerlo oggi, nel tempo del Nulla, rafforza il senso di sconfitta. La dannazione, appunto.