La Lettura, 22 novembre 2020
QQAN64YPIANTE Vite di piante nomadi
QQAN64YPIANTE La più antica farina al mondo è stata rintracciata nel Gargano, in una grotta situata a Paglicci (Foggia), dove è stato trovato un pestello di pietra vecchio di oltre 32 mila anni, al cui interno erano ancora presenti alcuni granuli di amido appartenenti a diverse piante selvatiche. Per lo più graminacee, come l’avena barbata, un cereale che cresceva spontaneo nell’Italia del Paleolitico, ma anche ghiande di quercia. Per le prime coltivazioni ci sarebbero voluti altri 25 mila anni: anche se le origini dell’agricoltura sono state individuate nella Palestina del 12.000 a.C., il primo frumento arrivò in Puglia solo 5 mila anni più tardi. E per la vite, ugualmente una pianta addomesticata in Medio Oriente, il passaggio sull’altra sponda del Mediterraneo non avrebbe richiesto meno tempo.
Ma non è di queste migrazioni botaniche che si occupa Katia Astafieff, la biologa che ne Le incredibili avventure delle piante viaggiatrici si concentra sugli scambi di arbusti, frutti e fiori avvenuti in una fase molto più tarda della storia dell’umanità. In quell’epoca di grandi esplorazioni, nascita del capitalismo e sviluppo dei commerci, tra il XVI secolo e il primo Novecento, in cui già Fernand Braudel individuava i prodromi della globalizzazione. Per raccontarci come siano arrivate in Europa le peonie degli altipiani tibetani, le fragole della pampa cilena, il ginseng delle foreste canadesi, il rabarbaro della taiga siberiana, i kiwi del Fiume Azzurro cinese e altre specie esotiche, Astafieff sceglie di occuparsi delle persone che le hanno trovate e magari trafugate, a volte rischiando la vita. E così il libro scritto dalla responsabile della comunicazione del giardino botanico di Nancy, uno dei più grandi di Francia, raccoglie dieci storie di piante, che sono innanzitutto storie di avventurieri e grandi viaggiatori. Come lei, del resto.
«Durante un viaggio in Cina, una decina di anni fa, mi sono fermata in una valle dello Yunnan – spiega l’autrice a “la Lettura” – e in un villaggio vicino alla città di Lijiang ho scoperto la casa del dottor Rock. Un botanico eccentrico ma geniale, a cui si devono tantissime piante, e che ha avuto una vita decisamente avventurosa». Nato a Vienna, da un maggiordomo alle dipendenze di un conte polacco, e orfano di madre, Joseph Rock, aveva dimostrato la sua passione per la Cina già da ragazzo, imparando a leggere gli ideogrammi. Emigrato in America, era finito a Honolulu, a causa di una tubercolosi. Qui, inventandosi un finto titolo di laurea, si affermò come il più grande botanico delle Hawaii. Nei 13 anni che passò nell’arcipelago, pubblicò tre libri e raccolse quasi 30 mila campioni per il suo erbario. Dopodiché venne spedito in Indocina dal Dipartimento americano per l’agricoltura, alla ricerca di una specie di castagno in grado di resistere ai parassiti. Fino ad approdare sui contrafforti himalayani dello Yunnan, dove con qualche interruzione, sarebbe rimasto per quasi un trentennio, venendo poi espulso nel 1949, dopo la rivoluzione maoista.
Oltre a raccogliere semi, e a esplorare le montagne al confine con il Tibet, questo singolare cacciatore di piante si distinse però anche per i suoi pionieristici fotoreportage a colori sui Naxi, i Mosuo e altre popolazioni locali. Dei veri studi etnografici, usciti sul «National Geographic» negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, e apprezzati anche dal poeta Ezra Pound, che furono accompagnati da ricerche linguistiche, traduzioni e collezioni di antichi manoscritti, successivamente donati alla biblioteca del Congresso di Washington. Tra le tante specie individuate da questo personaggio poliedrico, c’è anche una magnifica peonia arbustiva, bianca, con il cuore color porpora e i petali semplici. «In una lettera del 1938 al collega inglese Frederick Stern, Rock sosteneva di aver trovato alcuni semi di questo fiore in un monastero tibetano dove aveva soggiornato per diversi anni – continua Astafieff – ma sembrerebbe invece che siano il dono di un lama buddhista di alto lignaggio». La Pæonia rockii è in ogni caso oggi l’esemplare più bello tra tutte le varietà di piante intestate a Joseph Rock. Bruce Chatwin ricordava di aver appreso dell’esistenza di questo botanico solitario durante una visita ai giardini dell’università di Harvard, quando aveva scoperto il suo nome sulle etichette di tutti gli alberi che gli piacevano di più.
È una storia piena di avventure anche quella che ha portato la bevanda più consumata al mondo in Europa. La Compagnia delle Indie Orientali aveva creduto già nel XVII secolo di rompere il monopolio cinese nella coltivazione del tè, avviando un’importazione di queste piante. Solo che i cinesi erano stati più furbi, inviando agli inglesi esemplari di Camellia japonica, l’arbusto ornamentale, invece che di Camellia sinensis, il vero tè. Per quasi 200 anni la Compagnia delle Indie continuò a scambiare oppio in cambio di tè «taroccato»: nella migliore delle ipotesi, foglie vecchie e di bassa qualità, miste a residui di ogni genere. Per sopperire alla forte domanda dal vecchio continente, i mercanti cinesi erano arrivati a colorare le foglioline del tè nero con il ferrocianuro, per farle sembrare tè verde. Le due qualità in realtà provengono dalla stessa pianta, aspetto ignoto agli europei: l’unica differenza sta nel processo di fermentazione. Con la fine della prima guerra dell’oppio, che nel 1842 sancì la debolezza militare della Cina, e la sua apertura alla penetrazione commerciale straniera, un altro botanico, lo scozzese Robert Fortune, fu incaricato di esplorare le province costiere del Fujian, Guangdong e Jiangsu, alla ricerca delle piante più pregiate di tè. Il giovane giardiniere di Edimburgo si trasformò in una spia e per tre anni girò per le montagne più inaccessibili della Cina meridionale, con tanto di testa rasata e finto codino, rischiando la vita per trovare gli arbusti migliori.
Tra le tante piante sconosciute che Fortune andò raccogliendo in queste peregrinazioni, ce ne fu anche una che cominciò a essere apprezzata e coltivata solo un secolo più tardi: una specie all’epoca nota come «ribes della Cina», e poi battezzata Actinidia chinensis. Accadde per caso. Nel 1904 Isabel Fraser andò a trovare la sorella, insegnante in una missione religiosa nella provincia dell’Hubei. E al ritorno ne riportò alcuni semi in Nuova Zelanda, dove questa pianta esotica conobbe un tale successo che nei decenni successivi iniziò a essere coltivata su larga scala. Nel secondo dopoguerra i neozelandesi pensarono di lanciare il suo frutto, ricco di vitamina C, anche sul mercato americano; ma per conquistarlo, avevano bisogno di un nome che ne facesse dimenticare l’origine della Cina comunista. Da qui l’idea di kiwi, l’uccello simbolo della Nuova Zelanda.
Con ironia e leggerezza Astafieff ci accompagna in queste sue divagazioni botaniche, rovesciando anche qualche luogo comune. Del ginseng, tradizionalmente associato alla medicina cinese e coreana, apprendiamo che venne scoperto nel XVIII secolo anche nelle foreste del Québec, da un chirurgo francese prestato alle scienze naturali, Michel Sarazin. Tant’è che il Canada è ancora oggi uno dei maggiori produttori al mondo di ginseng. Il rabarbaro si deve invece a un biologo prussiano, arruolato da Caterina II per esplorare le regioni più remote della Russia, Peter Simon Pallas. Il quale, nei decenni che passò girovagando per la Siberia, tra i resti di un mammut e un meteorite, si imbatté in questa pianta medicinale. Come questo sia accaduto, le peripezie e le coincidenze che portarono la natura a rimescolarsi da un continente all’altro in secoli recenti, tutto questo è la traccia seguita dell’autrice. Un romanzo vegetale.