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 2020  novembre 22 Domenica calendario

12QQAFM10 Intervista a Anna Wiener, autrice di "La valle oscura" (Adelphi)

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«Sono sollevata dal risultato elettorale, ma penso che ci sia una quantità infinita di lavoro da fare». È mattina a San Francisco e, dato il periodo, sembra naturale cominciare la conversazione con Anna Wiener da qui, dalle elezioni e da come si sente al riguardo. «In realtà – dice – c’è altro che mi sta occupando la testa ancora più delle presidenziali».
Sarebbe?
«L’anno scorso, qui in California, è stato presentato un disegno di legge (l’Assembly Bill 5, ndr) per equiparare i lavoratori delle compagnie di ride sharing e food delivery a dipendenti. Un cambiamento avrebbe concesso loro, fra le altre cose, un salario minimo e l’assicurazione sanitaria. Ma Uber, Lyft e altre compagnie di settore hanno investito 200 milioni di dollari per scrivere la legge che volevano e inondare l’opinione pubblica di propaganda. Così, ieri, è stata approvata la Proposition 22, che esenta le aziende tecnologiche da ogni forma di tutela o salario minimo, e rende ai lavoratori molto più difficile organizzarsi in sindacati. Credo sia l’inizio di una grave crisi dei diritti del lavoro negli Stati Uniti...».
«...e che nulla cambierà con l’amministrazione Biden», aggiungerà più avanti nella conversazione.

La valle oscura è un memoir...
«...ma non volevo che fosse un racconto troppo intimo né lo svelamento di un’azienda specifica. Ho cercato di scrivere il memoir di un luogo, di un’epoca e di un’industria intera. Per questo la narrazione diventa, a volte, intenzionalmente generica. E per questo non nomino mai le compagnie in cui lavora la narratrice».
Così Facebook, riconoscibilissima, viene chiamata «il social che tutti odiano». Nomi espliciti o meno, siamo lì, nella Silicon Valley, negli anni in cui si guardava alla Silicon Valley come a una promessa di palingenesi. Il periodo delle startup miliardarie e della bolla dot-com. La giovane protagonista, laureata in Lettere a New York e a corto di prospettive nel sonnolento mondo editoriale, si ritrova quasi per caso a lavorare in una startup di editoria digitale. Si trasferisce da una costa all’altra ed entra a far parte di un’altra compagnia, di analisi dati, destinata a diventare il prossimo unicorno della Valley. Scopre un gusto inaspettato per i soldi (un gusto che nell’editoria non conosceva affatto), quindi cambia ancora incarico, stavolta in una nota piattaforma open source. Il suo è un viaggio d’iniziazione e ascesa nel mondo digitale, partecipato, dolente ma sempre venato d’ironia. È l’esplorazione di un particolare fardello psichico comune a tutte le persone che lavoravano in ambito tecnologico, che termina con il rifiuto e il distacco da quello stile di vita e il ritorno al punto di partenza: l’editoria e la scrittura di un libro, questo. Insomma, dal passato all’innovazione estrema, poi di nuovo al passato; dalla parola alla scienza e bruscamente indietro.
«Ciò che succede nella Silicon Valley ha poco a che fare con l’innovazione, e tanto meno con la scienza».
Con cosa allora?
«Marketing».
Eppure, per come la racconti, la Silicon Valley si crogiolava in una pretesa d’innocenza. Nell’inconsapevolezza di sé. Non ci consideravamo parte dell’economia della sorveglianza. Non riflettevamo sul nostro ruolo, non pensavamo al fatto che stavamo favorendo e normalizzando la creazione di banche dati sul comportamento umano, gestite da privati e non soggette ad alcuna regolamentazione. Stavamo solo permettendo ai responsabili di prodotto di eseguire test A/B più efficienti. Stavamo solo aiutando gli sviluppatori a creare app migliori. Più volte ho avuto l’impressione di leggere un romanzo di formazione, non di una coscienza individuale però: il romanzo di formazione dell’industria tecnologica.
«Non so se l’industria sia nella sua fase matura, ma di sicuro non è più nella sua infanzia. Le elezioni del 2016 hanno portato al grande pubblico la consapevolezza di quanto potenti fossero quelle aziende. Si è sollevata molta critica e parecchie persone nell’industria hanno assunto una posizione difensiva, parlando di “innovazione sotto attacco”, perfino di “scienza sotto attacco”. Nella Silicon Valley c’è parecchia ambivalenza rispetto al potere. Molti leader vogliono ancora aggrapparsi alla narrazione di sé stessi come underdog, di eterni outsider, di liberali reietti. Ma la Silicon Valley non è davvero liberale. È alquanto conservatrice. Libertaria, semmai».
Il titolo italiano non trasmette il doppio significato dell’originale, la Silicon Valley che diventa la Uncanny Valley.
«Uncanny Valley è un’espressione che si usa in robotica, per descrivere l’esperienza emotiva di trovarsi di fronte a un automa con sembianze umane. All’inizio ci sentiamo confortati, ma quando il robot diventa troppo realistico il senso di affinità viene meno e subentrano paura e repulsione. Mi sembrava che descrivesse bene la mia esperienza lavorativa nell’industria».
Dal racconto emerge una mentalità da startup piuttosto specifica.
«Le persone che ho incontrato in Silicon Valley erano tutte molto giovani, molto ambiziose, molto concentrate. E molto persuasive. Credevano sinceramente che il modello di business dell’industria potesse migliorare il mondo. Ma al tempo stesso avevano un’esperienza limitata del mondo e non erano in grado di pensare alle conseguenze a lungo termine di quello che facevano, di ragionare sul contesto. Guardavano solo il modello di business. La cultura della Silicon Valley non è solo incredibilmente individualista: è anche anti-storica e anti-intellettuale».

I tavoli da ping pong, i videogame, i distributori automatici di tastiere, cuffie, cavi e cavetti, tutti gratuiti; gli incentivi al fitness e all’automiglioramento, le gite di team building, i falò, i rituali propiziatori, perfino una caccia al tesoro in centro città: sembra anche una mentalità parecchio adolescenziale.
«I campus di Google e Facebook nella Bay Area assomigliano a dei college. Molto di questo ha a che fare con la volontà di trattenere le persone in ufficio il più a lungo possibile, facendo sembrare il lavoro divertente. Ma è vero che esiste un legame inscindibile fra la Valley e la giovinezza: c’è sempre un linguaggio di programmazione nuovo da imparare, c’è sempre una nuova classe di neolaureati di Stanford con idee dirompenti e di cui tutti si infatuano. Un po’ come il mondo editoriale che s’innamora sempre dello scrittore venticinquenne».

Ti manca l’industria?
«La trovo ancora interessante. Ne leggo e ne scrivo, ma non mi manca. Non trovavo più il lavoro divertente e in me si era ormai instillata una domanda: a chi giova davvero tutto questo? Però ricordo l’eccitazione di trovarsi lì».
Di che cosa era fatta?
«Di velocità. E dell’impressione di risolvere problemi complessi. Anche se, alla fine, non si trattava di risolvere problemi dell’umanità. Era solo software».
Scrivi: Agli ambasciatori del digitale non sembravano piacere nemmeno le donne in carne e ossa: si lamentavano che le donne a San Francisco erano al massimo da cinque, non da dieci, e si lamentavano che non ce n’erano abbastanza. E più avanti: Sessismo, misoginia e oggettificazione non definivano il luogo di lavoro – ma erano ovunque. Come carta da parati, come l’aria.
«Il sessismo nei luoghi di lavoro si manifesta in molti modi diversi. Nel mio caso era soprattutto il sottinteso che fossi brava nel mio ruolo per via delle mie qualità “emozionali”, non di quelle professionali. Questo si traduceva nel non avere accesso a scatti di stipendio o promozioni. Ho dovuto scegliere attentamente le mie battaglie perché desideravo restare, e appena sfioravo il problema del sessismo gli altri prendevano le distanze. D’altronde, quando ci sono quattro donne in una compagnia di quaranta dipendenti, quanto lontano può portarti la messa in discussione?».
Tra le varie figure del libro spicca l’amministratore delegato della startup di analisi dati, il tuo secondo incarico. Anaffettivo, chiuso in sé stesso, spietato ai limiti del mobbing.
«Lo considero più il prodotto di una cultura che un individuo con tratti specifici. Può darsi che vederlo così sia un modo per perdonarlo più facilmente. Ma è vero che ha fondato la compagnia a 19 anni. Non aveva mai lavorato prima, non ha finito il college ed era circondato da persone che gli ripetevano che sarebbe stato lui the next big thing. Noi dipendenti ci sentivamo continuamente in bilico, come se un suo cambiamento d’umore potesse pregiudicare tutto. Credo che a innervosirci fosse soprattutto la percezione della sua inesperienza. Se dirigi un’azienda, non dovresti farti vedere che leggi un libro su come dirigere un’azienda».
Però trapela anche un fascino per il personaggio.
«I motivi per cui rappresentava un problema erano gli stessi per cui mi affascinava. Un ragazzo che arriva dalle periferie dell’Arizona, un americano di prima generazione: volevo credere che uno così potesse farcela solo grazie a una buona intuizione. Vogliamo tutti credere a questo genere di storie. Mi sono lasciata conquistare dal romanticismo, dal marketing».
O forse da un’idea di purezza?
«Non c’è nessuna purezza in Silicon Valley. Le compagnie tecnologiche adesso inseguono contratti militari, contratti con il Dipartimento della Difesa».
È più facile che i correttivi vengano da fuori, dall’opinione pubblica, o dall’interno, dai dipendenti?
«Devono venire da entrambe le parti. Il criticismo interno, purtroppo, è limitato da quanto i dipendenti guadagnano. Ma il problema maggiore è che i politici non capiscono la tecnologia, perciò finiscono per credere alla mistica della Silicon Valley, proprio come molta opinione pubblica, per la quale la tecnologia è una scatola nera. È prima di tutto necessario demistificare l’industria e i prodotti».

Cominci La valle oscura parlando di quanto fosse in crisi il mercato editoriale quando lo lasciasti, un ambiente immobile, esausto e gerontocratico. Non credo che le cose siano tanto migliorate nel frattempo, eppure alla fine hai scelto un libro per raccontare. Per opporti.
«Continuo a pensare che l’editoria non sia una forma di business particolarmente funzionante. Ma i libri sono altro rispetto all’industria libraria. E io credo ancora nei libri. Credo nel trasmettere le esperienze in modi che non siano ottimizzati, che si permettano di essere caotici e non abbiano una tesi. Scrivere è stato un antidoto a tutta l’ottimizzazione a cui sono stata sottoposta negli anni in Silicon Valley».