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 2020  novembre 21 Sabato calendario

La guerra del cacao

Il mercato del cacao è diventato «un campo di battaglia». Da un lato i maggiori fornitori, Costa d’Avorio e Ghana, che controllano il 70% dell’offerta e provano a imitare l’Opec (ma senza l’arma dei tagli di produzione). Dall’altro i colossi dell’industria dolciaria, che durante la crisi da Covid cercano con ogni mezzo di sottrarsi ai ricatti. A costo di gettare nel caos la borsa dei futures di New York, dove i magazzini si stanno svuotando in modo anomalo e le quotazioni sono impazzite: il contratto sul cacao per consegna dicembre, la scadenza più vicina, si è impennato del 25% in una settimana fino a 2.962 dollari per tonnellata, 275 dollari in più rispetto al future successivo, quello per marzo (oggi il più attivo), che a sua volta è salito ai massimi da otto mesi.
Il maggior responsabile del rally sarebbe Hershey’s, multinazionale Usa tra i big mondiali del cioccolato (sue ad esempio le barrette Kit Kat), che secondo fonti Bloomberg avrebbe prenotato un’enorme consegna di cacao alla scadenza del future di dicembre: almeno 10mila tonnellate, se sono veri i rumors secondo cui la società ha dovuto ottenere un’esenzione speciale, avendo superato i limiti consentiti dalla borsa.
Quello di Hershey’s (che non ha confermato né smentito la vicenda) non sarebbe comunque un caso isolato. Sempre secondo Bloomberg, all’Ice a breve saranno ritirate oltre 30mila tonnellate di cacao, volumi elevatissimi, che sembrano rispondere a una sola esigenza: evitare di rifornirsi direttamente dai produttori e in particolare dai due big, Costa d’Avorio e Ghana, che da questa stagione (iniziata il 1° ottobre) pretendono un sovrapprezzo di 400 dollari per tonnellata.
La possibile rappresaglia è già nell’aria: potrebbe essere sospeso il programma di certificazione del cacao sostenibile, ha minacciato Joseph Aidoo, ceo del Cocobod, ente ghanese che sovrintende al settore, una reazione che provocherebbe seri problemi non solo di approvvigionamento, ma anche d’immagine ai grandi marchi del cioccolato.
A evocare il paragone con un «campo di battaglia» è Judy Ganes, nota analista indipendente del settore. «I consumatori di cacao sono in una posizione scomoda – spiega Ganes –Hanno provato a negoziare, chiedendo ai produttori di abbassare il premio, ma gli è stato negato. Il cacao dalle scorte di borsa certificate a questo punto è relativamente economico». «Cosa succederà dopo in questa guerra del cacao? Sul mercato – conclude l’analista – c’è un sacco di cacao disponibile, gli acquirenti possono usare Costa d’Avorio e Ghana come fonte residuale».
Come in tutte le guerre, il rischio è che ci siano milioni di vittime innocenti: non tanto gli amanti del cioccolato – che al massimo spenderanno un po’ di più per un consumo voluttuario – quanto i contadini africani, che spesso vivono sotto la soglia della povertà e che potrebbero rimanere schiacciati dalle conseguenze impreviste della sfida a Big Chocolate.
L’industria del cioccolato genera oltre 100 miliardi di dollari di fatturato all’anno a livello globale, ma solo il 12-13% finisce ai Paesi fornitori di cacao secondo la Banca mondiale. Molti braccianti in Africa sopravvivono con meno di un dollaro al giorno e il lavoro minorile è una piaga diffusa.
È sulla necessità di redistribuire la ricchezza che i Governi di Costa d’Avorio e Ghana (entrambi vicini alle elezioni) hanno messo l’accento quando nei mesi scorsi hanno annunciato la creazione di un’Opec del cacao: la Copec, come l’ha chiamata il vice presidente ghanese Mahamudu Bawumia, coniando un acronimo privo di senso. Il cacao però non è come il petrolio: non basta girare una valvola per tagliare la produzione. Così i due Paesi africani – che insieme producono quasi 3 milioni di tonnellate di fave all’anno, su un totale di 4,7 milioni nel mondo – hanno deciso di aumentare le entrate imponendo agli importatori una sorta di tassa: il Living Income Differential (Lid), alla lettera «differenziale di reddito minimo». Sono 400 dollari per tonnellata, che si aggiungono alla quotazione di borsa del cacao e al pagamento di altri extra, tra cui quello relativo all’origine del prodotto. Un balzello che i big dell’industria dolciaria in un primo momento hanno giustificato e promesso di pagare, ma al quale adesso cercano di sottrarsi.