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 2020  novembre 21 Sabato calendario

Diario di scrittura di Sandro Veronesi

C’è tanto lavoro da fare per inventarsi un mondo. Tanto lavoro.
Io volevo solo parlare della morte dei miei genitori, del cielo nero «come un sacco di crine» che ha schiacciato i miei primi tempi da orfano, della lotta per non sguazzare nella pozzanghera del lutto, per tirarmene fuori, accettare, rinascere, risanarmi: ma se avessi parlato di quello sarebbe venuta fuori una specie di diario, e io non ho mai amato i diari. Allora ho pensato di inventarmi un mondo nel quale tutti, non solo io, fossero alle prese con l’inaccettabile e rischiassero di sprofondare nella negazione – e solo pochi, lottando, riuscissero a salvarsi. Soltanto così, per come vedevo le cose io, il mio buio sarebbe potuto diventare letteratura. Il diario no. I diari non sono letteratura. La penso ancora così, peraltro.
Ma inventarsi un mondo significa inventarsi un sistema complesso di azioni e reazioni, una moltitudine di personaggi interdipendenti gli uni dagli altri, significa inventarsi i loro movimenti individuali e quelli collettivi, i gesti normali e i gesti inconsulti, le differenze e le affinità. Significa mettere in moto un meccanismo che non si sarà più in grado di controllare. E poiché io volevo parlare del pericolo di sprofondare nella palude e di essere divorati dai suoi mostri, dovevo inventare anche una minaccia altrettanto potente che incombesse su questo mondo, un pericolo immenso e pandemico. Così, non si è trattato solo di inventare un mondo, ma anche una fine del mondo.
La fine del mondo l’ho inventata prima del mondo. Mi è venuta abbastanza facile. Una fine del mondo intesa proprio come l’Apocalisse che fa irruzione al galoppo– incomprensibile, inaccettabile e tuttavia madornale e fin troppo evidente, a travolgere ogni cosa. Mi è venuta facile perché non ho dovuto fare altro che tirarla fuori dalle mie profondità, come svuotando uno zaino. Cioè si trattava di tirare fuori le mie paure e metterle in campo tutte insieme. E le mie paure erano: la ragione che non serve più a nulla, la fede che non serve più a nulla, gli squali, il cancro, la violenza, la follia, le morti fesse, i bambini che spariscono. Bastavano e avanzavano per farci una fine del mondo. Era sufficiente proiettarle tutte insieme sul mio mondo (non ancora) inventato.
Restava dunque da inventare il mondo. Intendiamoci, anche se mi sarebbe servito per parlare di me, anche se gli avrei proiettato sopra le mie paure, io non ero quel mondo: tutt’al più era lui a essere me. E poiché da un po’ di anni ero perseguitato dall’immagine di un grande albero ghiacciato intriso di sangue (non ho mai avuto la minima idea sulla provenienza di questa immagine) ho pensato alla montagna. Un paese di montagna. Isolato, privo di attrattive turistiche, svuotato di abitanti, senza più giovani, senza eros, senza futuro, con poche decine di abitanti quasi tutti vecchi, quasi tutti pazzi o quasi pazzi.
Un paese maledetto, si sarebbe detto dopo l’avvento dell’Apocalisse; e allora, visto che bisognava dargli un nome, perché non consacrarlo al santo più equivocato di tutti? San Giuda – inteso come Giuda Taddeo, cugino di Cristo e apostolo come l’Iscariota: qui in Europa così ignorato, se non direttamente scambiato per il traditore, e invece così popolare in America Latina, dove è venerato come il santo dei disperati. Ci sono folle in coda fuori dalle cattedrali di Lima, di Rio de Janeiro, di Bogotà, che ospitano il tabernacolo con la statuetta di San Giuda Taddeo, le ho viste con i miei occhi, tutti in attesa di toccare il vetro della teca rivolgendo la propria preghiera al Santo di chi non ha altri santi. Ma questo in Sudamerica. In Italia San Giuda è percepito come un santo scandaloso, che sguazza nell’ambiguità perché viene confuso con il responsabile della consegna di Cristo. Era il nome perfetto per il mio paese-mondo: si trattava solo di verificare che non esistesse già, magari arroccato alle pendici della Sila o sulle Prealpi della Liguria, e fortunatamente no, un paese chiamato San Giuda, o Borgo San Giuda, non esisteva. Non esisteva ancora.
Per renderlo più fantasmatico, decisi di collocarlo sul confine tra il Trentino e il Sud Tirolo – confine che era politicamente esistito oppure no, nel corso dei secoli, a seguito dell’esito delle guerre. Per la precisione, individuai una valle reale, nelle vicinanze di Cles, attorno alla quale collocarne due o tre inventate da me, ognuna con il suo fiumiciattolo inventato e il suo paese inventato, per arrivare a Borgo San Giuda, cioè al mondo; per arrivare alla valle maledetta dove sarebbe cominciata la fine del mondo.
I nomi non erano un problema. Non sono mai stati un problema, per me, i nomi dei posti e dei personaggi inventati, perché ho i miei criteri per sceglierli, non devo mai improvvisare; li raccolgo via via che li incontro e li tengo da parte, come si fa con i funghi messi a surgelare. Cles doveva rimanere l’ultimo posto vero; da lì in poi, salendo verso Borgo San Giuda, solo posti inventati: Serpentina, Massanera, Doloroso, Gobba Barzagli, Fondo, Dogana Vecchia, Dogana Nuova. I nomi non erano un problema.
E alla fine bisognava popolarlo, questo paese chiamato Borgo San Giuda. Ecco il lavoro enorme. Bisognava strutturarlo. Da numerose visite fatte nei cimiteri di piccole frazioni di montagna avevo ricavato l’informazione che paesi simili a Borgo San Giuda erano costituiti dall’incrocio di cinque, sei, otto, massimo dieci ceppi familiari. Mi decisi per dieci, incrociati tra loro a formare quattro clan. I cognomi non erano un problema, bastava incrociare quelli che mi procuravo con i miei metodi con quelli compatibili con quell’area geografica. I miei metodi erano sostanzialmente due: campioni di sci (o avversari particolarmente forti miei e di mio fratello di quando facevamo le gare di sci, da ragazzi) e cognomi abbandonati da gente che aveva scelto un nome d’arte. Così, gli abitanti di San Giuda si divisero (incrociandosi) in: Formento (campioni giovanili di sci alpino, fratello e sorella, originari dell’Abetone), Tomalin (Susan Sarandon), Codognotto (Natalino Otto), Ghiozzi (Gene Gnocchi), Zoboli (Alberto Lupo), Antonaz (Laura Antonelli), Lechner (Bombolo), Lassman (Abbe Lane), Nones (campione olimpico di sci di fondo nel 1968 a Grenoble) e Centanin (Aldo Nove). Molto bella la ricerca sui nomi propri: trattandosi di persone molto anziane, è stata un’immersione nei nomi popolari a cavallo tra Ottocento e Novecento. Per i maschi Sauro, Zeno, Manrico, Erwin, Manfred, Primo, Terenzio, Rudy, Fulgido, Fosco, Nereo, Geppi, Notburg, Anton; per le femmine Urania, Argenia, Adua, Perla, Aurora, Genise, Nives, Edwige, Natalina. Trovai sul web un sito molto utile nel quale si poteva costruire il proprio albero genealogico, e me ne servii per farne uno enorme che tenesse insieme tutti i personaggi, risalendo indietro di tre o quattro generazioni. Non sapendo ancora quali sarebbero stati i protagonisti e quali i comprimari, ma sapendo che tutti sarebbero scivolati nella follia, per ognuno dovetti fare una scheda molto accurata dei disordini mentali destinati ad aggravarsi (anamnesi, eziologia, tare ereditarie, traumi). Per i disordini mentali c’era, allora, il DSM IV (Disorder and Statistical Manual and Mental Disorders, 4 edizione, per fortuna consultabile online), nel quale era possibile pescare, oltre alla descrizione delle sindromi più tradizionali, anche quella di sindromi più rare e interessanti (Folie à deux, Intossicazione da acqua, Tricotillomania, Accelerazione ideica, Sindrome di Waxman-Geschwind). Insomma, per farla breve, il risultato fu che per mettere al mondo 42 personaggi utilizzabili nella storia (gli abitanti di Borgo San Giuda, cioè del mio mondo inventato) ho messo insieme appunti per oltre 450 pagine. Un’altra trentina di personaggi meno importanti sarebbero scaturiti direttamente dalla storia, senza sforzi e senza schede personali.
Poi, c’erano da definire i due protagonisti, i due personaggi chiamati direttamente dentro la storia dagli eventi iniziali, le due voci narranti: quella del prete (la fede) e quella della psichiatra (la scienza). Quest’ultima l’ho concepita giovane, ex-campionessa di sci, laureata da poco, assegnata alla ASL di Cles e quindi titolare della zona investita dal disastro, intenta a staccarsi dal compagno più grande di lei, sostituto procuratore, il quale però faceva parecchia resistenza, e anche da una madre manipolatrice. Per lei non solo un cognome ma anche un nome di battesimo speciale: Giovanna Gassion, cioè Edith Piaf. Il prete invece non ho dovuto inventarlo perché quando ho cominciato a riempire la sua scheda per capire che tipo fosse mi sono accorto che si trattava, eh sì, di un personaggio che era già stato protagonista di un mio romanzo, quasi vent’anni prima: Mète, il ragazzo degli Sfiorati. Ma non mi interessava di sbandierarlo, perché non si credesse che il romanzo che avrei scritto fosse il seguito degli Sfiorati; anzi, pensai di tenere la cosa più nascosta possibile: così Mète è diventato Don Ermete – insospettabile, ma io sapevo un mucchio di cose su di lui, e soprattutto conoscevo il suo segreto.
Le schede dei due protagonisti, complete anche delle loro sindromi: altre quaranta pagine – cui, a rigore, andavano sommate le trecento e passa degli Sfiorati, dove la psicologia di Mète/Don Ermete veniva strutturata con molta definizione. Ottocento pagine, dunque, per costruire il mio mondo inventato: non restava che mettere a frutto quel lavoro. L’albero intriso di sangue c’era; la fine del mondo prodotta dalle mie paure (la ragione che non serve più a nulla, la fede che non serve più a nulla, gli squali, il cancro eccetera) sarebbe cominciata da lì.