«Sono onorato. I circoli sono isole formidabili, abitate da lettori veri».
Ci racconta la gestazione del libro?
«Avevo accompagnato mia moglie Maria Amelia Monti a ritirare un premio. Tra i premiati c’era anche Hicham Ben’Mbarek, un industriale di pellami marocchino. Rimasi colpito dalla sua storia, aveva raccontato il suo trapianto di cuore, mi aveva profondamente toccato. Lo avvicinai e gli chiesi il permesso di scrivere la sua biografia».
Poi però non l’ha fatto, come mai?
«Ho pensato di inventare un racconto di sana pianta, volevo sentirmi libero. Ho lasciato solo il riferimento al trapianto. In realtà è tutto frutto della mia fantasia, anche il Marocco, dove ero stato una sola volta nel 1999. Quattro giorni insieme a Maria Amelia, chiusi in albergo perché lei era incinta e faticava a muoversi. Mi sembra di aver lavorato come un medium».
Non si è documentato?
«Ho letto molto sul Marocco, preso appunti, consultato Google Maps. Il vero lavoro però è stato calarmi dentro la psicologia di Amina, lasciarmi trasportare. Avevo una griglia ridotta all’osso, per il resto ho semplicemente seguito il cuore del personaggio».
Il punto di vista di una donna straniera che fatica a integrarsi nel nostro paese. Perché questa scelta?
«Ero rimasto scioccato dall’attentato di Charlie Hebdo. Scrivo commedie e ho sentito che il proiettile contro i vignettisti era diretto anche a me, mi riguardava. La pagherete, ho pensato a caldo. Poi ho capito che quel sentimento di rabbia era sbagliato, che era quello che volevano loro, gli assassini. Ho iniziato allora a maturare l’idea di scrivere qualcosa sugli islamici. Non sapevo ancora bene che cosa, non pensavo a un romanzo, anche se tanti anni fa, prima di iscrivermi alla scuola di teatro del Piccolo di Milano, ne avevo scritto uno, brutto e mai pubblicato».
Il risultato è una scrittura molto visiva, adatta alla scena.
«Nel narrare la storia dal punto di vista di Amina, ho seguito l’esempio di Alan Bennett, il drammaturgo inglese. Tempo fa, trasponendo in teatro il suo Nudi e crudi ho capito qual era il suo segreto: scrivere in soggettiva».
Crede che la chiave del romanzo sia l’immedesimazione?
«Durante una presentazione a Mortara, sono stato avvicinato da una signora che mi ha detto: sono la moglie del primario di cui parla nel libro, complimenti, lo ha descritto benissimo. Non sapevo a chi si riferisse, non credo di essere mai stato a Mortara. Ho ambientato lì una parte della vita di Amina, facendola lavorare in un ospedale, ma ho inventato tutto».
Vedremo Amina a teatro?
«Non penso, mi piacerebbe però che qualcuno ne facesse un film».
Ha in mente qualche regista in particolare?
«Forse un francese, o forse Gianni Amelio. Ci vuole un regista con la sensibilità giusta per assorbire una storia come questa».