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 2020  novembre 21 Sabato calendario

Biografia di Franco Moretti raccontata da lui medesimo

Cos’è che mi affascina dell’ampia produzione storico saggistica di Franco Moretti? Una questione non detta, né espressa se non indirettamente. Si tratta, per venire al punto, di un atto di resistenza che non è mera ribellione, bensì una meditata presa di posizione contro l’ineffabile. Contro quel modo di leggere la letteratura come un residuato del mondo teologico nel quale un Dio iroso o benedicente prende le forme del capolavoro. Mi affascina perché scorgo la concentrazione e il dispiego di forze per poter definire la sfuggente materia del romanzo. E mi repelle come lettore "ingenuo" che adora mettere la punta del naso tra le pagine di un buon (o cattivo) romanzo. Si deve essere vicini o lontani da quell’oggetto che chiamiamo storia letteraria? Ecco una domanda su cui Moretti si è interrogato a lungo senza tuttavia giungere a una conclusione dogmatica. Come alcuni sanno Franco è il fratello di Nanni Moretti, di un paio d’anni più grande, ha insegnato in numerose università, primeggiando in quelle americane. Da ultimo nella prestigiosa Stanford. Ha compiuto settant’anni e per l’occasione si è regalato un libro tormentato e luminoso: A una certa distanza (Carocci).

È un libro pieno di spunti autocritici. Da dove nascono?
«Dalla sensazione che i saggi retrospettivi, qui raccolti, non sempre sono all’altezza delle promesse.
Sia chiaro, qualcosa ho combinato e qualcosa è molto più che niente; le piccole scoperte che emergono qua e là sono il frutto di un lavoro serio, faticoso, che a volte ha richiesto due o tre anni di discussioni sui dati, per scrivere dieci pagine. È ricerca vera. Forse la cosa più importante si condensa in una parola tra le più sgraziate che la lingua umana abbia mai coniato, e cioè "operazionalizzazione"».
Si tratta di un’analisi quantitativa di uno o più testi letterari?
«Sì, un’analisi oltretutto che mi ha costretto a esaminare criticamente i concetti, consentendomi di migliorare nozioni come "stile", "scala", "forma" e via dicendo».
Come è giunto a questa critica computazionale, mi pare che lei la chiami anche così?
«La prima spinta mi venne dall’incontro intellettuale più importante della mia vita, quello con Emma Castelnuovo, insegnante di matematica alle scuole medie. Mi fece scoprire il fascino del pensiero fantasioso ma anche esatto. E come nelle scienze sociali e naturali, l’audacia di una teoria a volte si accompagna all’eleganza con cui è formulata».
So che si è laureato a Roma all’inizio degli anni Settanta. Già allora metteva in relazione fantasia ed esattezza?
«Mi sono laureato nel 1972 con una tesi sulla poesia inglese degli anni Trenta. All’università mi ero iscritto nel 1968, non è che abbia frequentato molto: corsi di inglese, certo; naturalmente Shakespeare, Yeats, Eliot; Alberto Asor Rosa sulle avanguardie europee, Emilio Garroni su Kant, Paolo Chiarini su Brecht e Lukàcs. Come vede tutto molto classico. Un paio d’anni dopo la laurea seguii il corso di Lucio Colletti sul Capitale. Faccio parte di una generazione che si è formata su Weber, il giovane Lukàcs, Benjamin,
Adorno, Braudel, i formalisti russi, la linguistica strutturale, Lévi Strauss».
Molto Novecento.
«È un secolo che non possiamo scrollarci di dosso».
Suo padre era un epigrafista, sua madre insegnante in un buon liceo romano. Avrebbero voluto altro dalla sua educazione?
«A loro veramente sarebbe piaciuto che io lavorassi nel mondo delle scienze naturali, furono forse un pochino delusi quando mi iscrissi a lettere».
Mi tolga una curiosità. I suoi genitori hanno partecipato a qualche film di suo fratello Nanni, lei è mai stato coinvolto?
«È accaduto in un paio di film. Ma ero un pessimo attore, appena Nanni ha potuto pagare dei professionisti decenti mi ha licenziato. L’unico davvero bravo era mio padre e si divertiva anche».
Quasi tutta la sua ricerca si è sviluppata attorno al romanzo, eppure non ne fa menzione nella sua formazione. Curioso.
«Perché? Dopotutto, a lavorare sul romanzo arrivai relativamente tardi. Li leggevo senza analizzarli. Chi all’università aveva interessi teorici in genere studiava la poesia o magari il teatro, non il romanzo.
Ricordo una conversazione a Berkeley, nel 1977, con un amico che aveva studiato a Yale con De Man, Bloom e altri. Gli chiesi: ma scusa perché uno come te, cui piace la teoria e il ragionare in astratto, studia il romanzo e non la poesia? E lui disse: beh, è semplice, leggere i romanzi mi piace molto di più».
Morale?
«Pare assurdo, ma questa idea non mi era mai venuta in mente. Arrivò al momento giusto, stavo pensando di studiare il romanzo di formazione e quella frase mi diede la spinta decisiva».
Che tipo di lettore ritiene di essere?
«In prima battuta sono un lettore come tutti, uno che si diverte, si annoia, si commuove, lascia il libro a metà, lo riprende e così via. Però leggo con la matita in mano, non prendo davvero appunti, ma sottolineo e metto dei punti esclamativi. Infine riguardo tutto da critico, concentrandomi su quello che avevo annotato. Insomma per metà sono un lettore normalissimo, che legge per piacere, per l’altra metà uno che lo fa per lavoro; e nel corso del processo il primo lettore diventa l’oggetto di studio del secondo».
Questa trasformazione le ha pesato?
«Alla lunga mi ha tolto il gusto della lettura. Leggo poco, meno di quello che vorrei. L’unica cosa che ancora mi piace è la poesia difficile: Hölderlin, Achmatova, Celan, Pasternak, Mandelstam, Benn, Blok, per fare dei nomi, che però è cosa ben diversa dal piacere più adolescenziale della narrazione».
Di quel piacere non è restato più nulla?
«Negli anni universitari pensavo che la fama di un romanzo non fosse più decisa da centinaia di migliaia di lettori anonimi, ma da un manipolo di esperti.
Com’era accaduto con l’Ulisse di Joyce. I romanzi dovevano essere come quelli di Beckett e Robbe-Grillet, al massimo Gadda, il resto era mezza cultura, libri da non leggere. Quando venne tradotto Cent’anni di solitudine, e tutti giustamente ne dicevano meraviglie, passarono anni prima che lo leggessi. Ero certo che si sbagliassero, un libro avvincente e insieme intelligente non poteva più essere scritto. Mi comportai da cretino».
Corresse il tiro?
«Solo in parte. Perché resto ancora affezionato all’idea che la letteratura debba anche essere difficile. Non per restringerla agli specialisti, ma per suggerire che la letteratura può anche, se necessario, contraddire il piacere. Il piacere lega sempre all’esistente, Beckett o Joyce no».
Il suo nuovo libro si intitola "A una certa distanza". E "distanza" è una parola chiave nel suo lavoro. Cosa vuol dire analizzare la letteratura "da lontano"?
«Guardi, se vado al cinema da solo mi metto seduto nell’ultima fila. Mi piace essere lontano da ciò che vedo perché mi sembra di capire meglio. Da lontano i volti e le espressioni li vedi peggio, ma le strutture d’insieme meglio. Capisci altre cose. E a me interessa più capire la logica del sistema che non le sue singole manifestazioni. Sono due approcci alla conoscenza diversi, non che uno sia giusto e l’altro sbagliato, è che cercano cose diverse. E non credo che si possano sommare, sono proprio due prospettive incommensurabili».
Un aspetto che mi colpisce del suo discorso è l’affermazione secondo cui la costruzione di un "canone letterario" non è opera dei critici ma del mercato e quindi dei lettori. Ma i lettori anonimi non guardano la letteratura da lontano.
«Sì, è così. Nel caso dei prodotti culturali che hanno un mercato di massa – il romanzo, il cinema, la tv, i videogiochi – il canone lo costruiscono le migliaia e poi milioni di persone che usano questi prodotti. È come se il loro piacere immediato li mettesse in contatto con qualcosa della struttura profonda di un’opera, cosa che alla critica richiederebbe decenni per capire davvero».
Dopotutto, il piacere del testo – qualunque cosa voglia dire – ha la meglio sulla "frigidità" del testo.
«Questo ruolo che il piacere immediato, irriflesso, gioca nella selezione culturale è un aspetto ancora mal studiato del romanzo. Intendiamoci, non tutto ciò che ha successo resta nella storia: proprio in questi mesi sto lavorando a un saggio sui "best-seller perduti" dell’Ottocento: romanzi che ebbero una popolarità enorme e ora nessuno più ricorda. Ma se non tutto quello che ha successo sopravvive, quasi tutto ciò che sopravvive aveva avuto anche un grande successo di pubblico».
In fondo quello che lei applica è una sorta di "darwinismo letterario". Ma cosa ci insegnano tutti i libri cui è stata tolta la voce o non è mai stata data?
«Bella domanda! Penso sia difficile ragionare sui percorsi che si interrompono presto, senza aver messo radici. Intuisci che un certo testo sta cercando di fare qualcosa, ma cosa esattamente non lo vedi. È come un grande paesaggio pieno di abbozzi, dove le tante culture che stavano per prendere forma non ce l’hanno fatta a realizzarsi. È una strana sensazione, difficile da trasmettere».
C’è un modo per accostarsi alla moltitudine dei libri dimenticati?
«Occorrerebbe farlo anche nell’ottica di una patologia dell’immaginazione: com’è che si finisce con lo scrivere dei libri che funzionano così male? La patologia spesso apre la strada alla fisiologia: capiamo il buon rendimento di un organo quando scopriamo le ragioni per cui non funziona più. Io, ad esempio, capii meglio lo stream of consciousness di Joyce e la tecnica di Conan Doyle leggendo testi simili ma che funzionavano male».
Insomma, l’immensa platea di fallimenti letterari può farci meglio comprendere quei romanzi che invece ce l’hanno fatta. Lei ha anche scritto un libro sul romanzo borghese.
«Sì: Il borghese, tra storia e letteratura. Uscì prima in America e tre anni fa da Einaudi».
Non è del libro che le vorrei chiedere ma se si definirebbe un "borghese di sinistra".
«Provengo da una borghesia culturale che poi è una borghesia per modo di dire, con un rapporto con il denaro, per esempio, che è l’opposto dello spirito imprenditoriale».
Cosa pensa dell’affermazione che la sinistra italiana oggi piace soprattutto a quel che resta della borghesia?
«La sinistra, cosa vuole, ne so né più né meno di chiunque altro. Per quel che mi riguarda i due principi cardini credo debbano essere l’eguaglianza e la conoscenza. Non è automatico che vadano d’accordo tra loro, ma sarebbe bello riuscire a unirli.
Naturalmente sono due principi universalistici, quindi sono l’opposto della cultura identitaria che si è affermata nella cultura politica e accademica americana».
Ha insegnato a lungo negli Stati Uniti e ha chiuso il suo impegno universitario l’anno scorso al Politecnico di Losanna. Oggi vive a Ginevra. Com’è l’Italia vista da fuori?
«Vengo spesso in Italia ed è un piacere. Oltretutto, conoscere un paio di generazioni di critici più giovani di me è stata una scoperta. C’è una libertà di pensiero e di vedute che in America si sognano. Purtroppo il sistema universitario italiano fa di tutto per distruggere il lavoro intelligente, e visto che i sistemi sono più forti dei singoli, temo che ci riuscirà».
Tutti questi anni trascorsi a occuparsi di romanzi non l’hanno mai indotta a passare dall’altra parte e cominciare a scriverne?
«No, non ne sono capace. L’unica eccezione l’ho fatta per mio figlio. Abbiamo passato gli anni della sua infanzia a inventare insieme delle storie. Un’ora al giorno: in macchina, in poltrona, passeggiando, all’alba, in piena notte. È segno che mi vuole bene, in fondo gli piacevano».