Sette, 13 novembre 2020
Intervista a Fumettibrutti
«Nei disegni sono sempre stata femmina» dice Josephine Yole Signorelli, in arte Fumettibrutti. In libreria col nuovo romanzo, Anestesia, terzo capitolo della trilogia autobiografica cominciata con Romanzo esplicito, e proseguita con P, la mia adolescenza trans – tutti Feltrinelli Comics. Riduttivo definire i suoi libri graphic novel. Ventinove anni, catanese, Josephine ci ha sottoposto a un test sociologico: nata in rete, diventa in breve l’idolo delle ragazze. Nei suoi racconti/disegni di amori finiti male o mai iniziati, nel suo senso di solitudine e inadeguatezza, si identificano tutte. Tanto che all’uscita del primo libro, Josephine assurge a portavoce (romantico dark) della sua generazione. Tutte vogliono essere lei. Passa un anno, arriva il secondo libro: P, la mia adolescenza trans, ovvero lo svelamento. Cosa succede allora? Tutte le ragazze continuano a identificarsi in lei. Benvenuti nella generazione della libertà e dell’autodeterminazione. Benvenuti nel loro mondo dove conta chi decidi di essere, non in quale corpo nasci. Dove l’identità è una questione di fantasia. Con l’ultimo capitolo di questa meravigliosa trilogia al contrario, Josephine torna indietro, all’inizio. All’istante in cui diventa Josephine Yole anche fuori dai disegni. Quel bambino vestito da principessa che saltava sul tappeto elastico? Era Josephine. Lo è sempre stato, solo che voi non lo sapevate. Voi maestre, professori, compagni di scuola, ragazzi (non mamma e papà che invece lo hanno capito da subito).
Fumettibrutti, Josephine Yole Signorelli, sulla copertina di 7 fotografata da Leandro Manuel Emede con abiti Gucci, styling Nick Cerioni
Prima operazione?
«Seno, mastoplastica additiva».
Il giorno dopo?
«Butto via i reggiseni imbottiti, e ne compro uno leggero, di pizzo».
Già portava i reggiseni?
«Con gli ormoni il seno mi era cresciuto. Piccolo e asimmetrico come capita a molte adolescenti».
Pubertà tardiva?
«Comunque bellissima».
Seconda operazione?
«Vagina, a distanza di due mesi».
I medici la sconsigliano?
«Una dottoressa dice: “La gattina frettolosa fa i gattini ciechi”. Aveva ragione».
Perché?
«A posteriori, sapendo come sono andate le cose. Ma rifarei tutto uguale, con la stessa fretta».
Il motivo di tanta fretta?
«Sono cresciuta con i cartoni animati dove le trasformazioni erano immediate. Creamy, Sailor Moon. Ha presente quanto impiega Sailor Moon a diventare guerriera?».
Poi però (come racconta nel libro).
«Mi opero in un posto convenzionato».
Con i sussidi possono capitare le strutture sbagliate?
«Se vai in una struttura dove i dottori non sono specializzati corri dei grandi rischi. So che quello che è successo a me, è successo anche ad altri nello stesso posto. Ci sono state denunce, e credo che lì abbiano smesso di operare, per fortuna».
Va da sola?
«Avrei voluto mamma. Purtroppo in quel periodo mia nonna si era aggravata, e mio padre usciva dal secondo ictus».
Quindi?
«Chiedo al mio ragazzo. Lui dice che deve studiare, ha l’ultimo esame e vuole concentrarsi».
Cosa si porta da casa?
«Tre mutande, una camicia da notte, e il coniglio di peluche». Umore?
«All’inizio di grande allegria. Insieme a un senso di orgoglio: in due mesi avevo curato la sifilide, rifatto il seno, e adesso».
Il risveglio?
«Mi accorgo subito che qualcosa non va. Chiedo alla fisioterapista perché mi senta bagnata là sotto. Lei risponde: “Benvenuta”».
In realtà?
«Ero stata operata male. Nel momento in cui mi vedo piango. Un disastro, tra cicatrici e forma. La pipì finiva sulla gamba sinistra. Il chirurgo per rassicurarmi dice: “Ai maschi interessa solo che sia un buco”».
Successivamente?
«Perdo la sensibilità a una gamba. I medici dicono che dopo dodici ore di operazione è normale. Io però non riesco a dormire, sento dolore dappertutto. E una voragine in mezzo alle gambe. Mi avevano tolto tanto sangue».
Dunque?
«Quando si accorgono che sono andata in necrosi, mi operano di nuovo, d’urgenza. Di quell’operazione ricordo che venivano tagliati pezzi, letteralmente tagliati».
Cos’erano quei pezzi?
«Pezzi di Josephine buttati via».
A quel punto?
«Rimango in ospedale un mese e dieci giorni. Dimagrisco, arrivo a pesare trentacinque chili. Non riesco a camminare, perciò non posso uscire. Stavo a letto, fuori dalla finestra vedevo gli uccellini sugli alberi: ero entrata d’inverno, e intanto era diventata primavera».
Continua a essere sola?
«Chiedo al mio fidanzato se può fare un salto. Lui dice di no, vuole riprendersi dallo stress dell’esame». In un mese e dieci giorni chi è venuto a trovarla? «Nessuno».
Degenza?
«Dopo due settimane mi spostano in un ex monastero per degenti ospedalieri. Ma siccome era la prima volta che arrivava una come me, le suore non sapevano dove mettermi. Erano spaventate a farmi stare con le femmine. Alla fine mi sistemano all’ultimo piano della torre, sola».
E?
«Piango tutti i giorni».
Oggi?
«Continuo a farmi la pipì sulla gamba sinistra».
La sensibilità alla gamba invece?
«Solo a distanza di sei anni sto cominciando a riprenderla. Anche se so che non tornerà mai come prima».
Niente tacchi?
«In teoria. Poi non resisto. E il giorno dopo sono costretta a passare un’intera giornata a letto».
Ne vale la pena?
«Sì».
La vita di Josephine appena uscita dall’ospedale?
«M’iscrivo all’università a Bologna, vivo nello studentato. Sono femmina, e non dico a nessuno la verità».
Arrivano i problemi.
«Per un fatto di documenti presentati in ritardo, legati alla questione maschio/femmina, incuria mia, ammetto, sono costretta a lasciare lo studentato e a restituire i soldi della borsa di studio. Anche se rateizzati, erano comunque tantissimi».
Come li recupera?
«Trovo lavoro in un night club di Forlì». Mansione? «Intrattenere gli uomini senza andare oltre».
Ovvero?
«C’erano due opzioni: essere presa in consumazione, essere presa in privè. Se non ti prendevano, cioè se non pagavano, era assolutamente vietato rivolgere la parola ai clienti».
Differenza tra le due opzioni? «A parte il costo, la differenza era di intimità. In consumazione stavi a un tavolo con altri, nel privè da sola con l’uomo».
Una volta nel privè?
«Qualcuno allungava le mani, ma era vietato fare cose».
La situazione più strana? «
Come racconto in P., un tizio appena uscito di galera che si precipita al locale. Sceglie me, e chiede di pipparmi su una coscia. Io dico: ok. Lui sistema due strisce di coca sulla mia coscia, e tira».
Altro?
«Principalmente si trattava di ascoltare questi uomini che parlavano. Ti raccontavano la loro vita, i problemi. Ricordo di uno che stava pagando il mutuo per rifarsi i denti perché con quei denti, diceva, nessuna donna lo voleva».
I clienti sapevano che lei era una trans?
«Tranne i proprietari del locale che avevano visto il documento, non lo sapeva nessuno. Ero l’unica trans tra le ragazze».
Rapporto con le altre?
«Avevamo in comune il camerino e il bagno senza carta igienica. Ci facevamo i capelli a vicenda, ci scambiavamo i vestiti, insomma c’era complicità. Ci univa la rabbia per gli uomini, la voglia di prenderli in giro. Eravamo una squadra contro di loro. Femmine contro maschi».
Un ricordo di quell’esperienza lavorativa?
«La moquette grigio blu del camerino, identica a quella del mio asilo da piccola. Così un giorno penso: a parte la coca, qui potrebbe essere l’asilo».
Lei all’asilo?
«Avevamo a disposizione una cesta di vestiti, e ogni bambino poteva scegliere cosa indossare. Io prendevo la gonna da flamenco, con cui saltavo sul tappeto elastico. Devo dire che anche gli altri maschi sceglievano vestiti da femmine – principesse, fate».
Cos’è il maschio?
«Un’invenzione, come la femmina».
Chi era il bambino prima di Josephine?
«Avevo i capelli lunghi e biondissimi, purtroppo scuriti con la crescita»
I suoi le permettevano di tenerli lunghi?
«Quando andavo da mia nonna, lei mi faceva la messa in piega. Interi pomeriggi a pettinarmi, farmi i boccoli, mettere e togliere mollette. La nonna mi chiamava al femminile. Credo che tutti a casa se lo sentissero, solo che non sapevano dare un nome a quello che ero».
In P. lei racconta di suo fratello Luca.
«Luca è autistico. Una volta, molto prima che iniziassi la transizione, lui dice al suo dottore: “Ho preso ottimo in matematica, papà mi ha portato dal barbiere, mio fratello P. adesso è mia sorella Yole”. Aveva capito tutto».
Chi è Luca?
«Un altro genere che ancora deve venir fuori. Anch’io del resto ero nascosta. Fino a poco tempo fa le trans venivano considerate al pari dei disabili. La disabilità però è un deficit davanti a una scala, per il resto è un problema della società che ti ha lasciato indietro». Gli altri fratelli?
«Siamo quattro: una femmina etero, un maschio omosessuale, una trans e un autistico, appunto. Davamo nell’occhio fin da piccoli, troppo strani».
Reazione dei coetanei?
«Ci picchiavano. Ma almeno ci picchiavano insieme».
Prima volta che viene picchiata senza i fratelli?
«A undici anni, all’uscita della biblioteca dove andavo ogni giorno a leggere L’uomo ragno, non avendo i soldi per comprarlo in edicola. All’uscita dei ragazzi mi circondano e mi picchiano. Uno dice: “Perché sei più carina della mia ragazza”».
Numero di operazioni per diventare Josephine?
«Sette. Sempre affrontate da sola, anche se nel momento più complicato, il risveglio, mi avrebbe fatto piacere avere qualcuno accanto».
Peggior risveglio?
«Per l’operazione alle corde vocali. Non potevo parlare, e non c’era nessuno che potesse capirmi solo con gli occhi».
Una persona che può capirla solo con gli occhi?
«Mamma».
L’estate dopo il cambio di sesso?
«È sempre stata una stagione complicata. In genere andavo al mare coperta, coi pantaloncini. L’estate dopo l’operazione invece non era più necessario nascondersi».
«L’estate dopo l’operazione è stata la prima in cui non mi sono nascosta. Ho comprato un bikini arancione e ho fatto la ruota».
Sensazione?
«Di libertà assoluta. Compro un bikini arancione, sgambatissimo. Ricordo di aver fatto persino la ruota in bikini. Un po’ storta, ma sempre ruota».
Cosa significa essere trans in questi anni?
«Ci sono delle differenze dalla generazione precedente come da quella successiva. Per esempio, la mia generazione si è riappropriata della parola “troia”. Per la generazione precedente era un insulto, per noi un complimento. Di recente ho scoperto che le ragazze trans più piccole si definiscono “trappole”. Per me era la peggior offesa. Dicevano: “Attenzione a quella, è una trappola”, per dire che ero trans, e io mi sentivo morire. Le ragazzine trans di adesso rivendicano questa parola, e io ne sono felice».
Chi è Josephine oggi?
«Quella delle foto di questo servizio».
Perché?
«La mia favola preferita è Pelle d’asino. Una principessa che, per fuggire dal padre, e non essere trovata, si veste con la pelle d’asino, tranne quando è in camera, da sola. Allora tira fuori dal baule i vestiti belli. Un giorno, dal buco della serratura, un principe la vede vestita da principessa e se ne innamora».
Quindi?
«Guardandomi in queste foto ho pensato: non serve più nascondere i vestiti nel baule, Josephine».