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 2020  novembre 20 Venerdì calendario

1QQAFM10 Intervista a Daria Bignardi

1QQAFM10

Quest’intervista nasconde una storia d’amore. La mia, vissuta a distanza, negli anni, con Daria Bignardi. Amore mediatico, ispirazionale, libresco. Non ci siamo mai conosciuti, ma la sua passione per i libri e quel suo sguardo che attraversa alto e basso, intercettando le tante declinazioni possibili dell’animale umano, sono state tra le prime cose che mi hanno fatto capire, già da adolescente, in che direzione volessi andare. L’ho raggiunta in modalità fluttuante e mista— su Whatsapp, su Skype e via mail —, poco prima del nuovo lockdown milanese, per parlare del suo nuovo romanzo, Oggi faccio azzurro (Mondadori), in cui la protagonista, Galla, è stata lasciata dal marito all’improvviso dopo vent’anni. Sta tutto il giorno sul divano, fissa la magnolia nel cortile, mangia pochissimo e immagina come sarebbe farla finita. Non esce di casa, tranne per andare dalla psicanalista, e in carcere, dove canta nel coro dei detenuti che hanno avuto problemi con le dipendenze. Poi inizia sentire una voce, quella di una pittrice morta sessant’anni fa, che la provoca e le offre uno sguardo inedito, spietato ma forse necessario, su ciò che è accaduto.
Daria, quest’intervista, inutile dirlo, mi emoziona parecchio. Hai un consiglio da darmi prima di iniziare?
«Di solito il saggio dice: comincia dal problema. Ma tu l’hai appena fatto».
Oggi faccio azzurro è una storia di abbandoni e esistenze arenate. Lieve e doloroso insieme, mi sembra il tuo libro più corale e più femminile, femminista.
«Credo anche io che sia il mio libro più femminile. Poi io non so niente. Voglio dire: non so definire i miei libri, non so se siano più o meno questo o quell’altro. So parecchio dei personaggi, ma nemmeno di loro so tutto».
Il titolo da dove arriva?
«È un modo di dire tedesco, nato nel Medioevo, quando gli artigiani avevano un solo giorno libero dal lavoro e potevano vedere il cielo. Vuol dire “oggi non vado a lavorare”».
I personaggi - la protagonista, ma anche la diciottenne Bianca e il seduttore seriale Nicola, che frequentano lo stesso studio di psicanalisi - sono tutti in un momento di sospensione.
«Non stanno lavorando, non vanno a scuola, alcuni sono in carcere. Soffrono tutti ma vivono anche un momento di grande libertà, in cui possono accorgersi di qualcosa di importante. Sono alle prese con un nodo».
Al centro c’è il dolore e il tentativo di trovargli una forma, una lingua, per vederlo e forse distanziarsene. Ho pensato al verso di Emily Dickinson scelto da Claudia Durastanti per l’esergo de La straniera : “Dopo un grande dolore viene un sentimento formale”.
«Bellissimo, anche se la mia Galla, e tutti gli altri personaggi, da Bianca, a Nicola, ai detenuti tossicodipendenti del coro dove canta Galla, sono ancora nel bel mezzo del loro dolore. Sono il contrario di irrigiditi: liquidi, molli, porosi. Totalmente informali: anche nel linguaggio. Hanno tutti un problema di sopravvivenza».
Galla inizia a sentire le voci, una voce. Marina Cvetaeva disse: “Tutto il mio scrivere è un continuo prestare orecchio”. Che tipo di esperienza volevi raccontare? Autosuggestione, dialogo interiore, psicopatologia?
«Ho immaginato che la protagonista senta davvero la voce della pittrice Gabriele Münter, che per quattordici anni fu la compagna di Kandiskij. Nel momento in cui Galla, in viaggio, entra nella casa di Murnau, dove hanno vissuto Gabriele e Kandinskij, sente questa voce, con accento tedesco, che comincia immediatamente a prenderla in giro. “Io mi chiamo Gabriele come l’arcangelo! Ma qui in Germania è un nome da donna. Il tuo che razza di nome è?”. Si presenta subito così, aggressiva, un tipaccio».
Con la voce Galla cerca di darsi una spiegazione per qualcosa che per lei è inaccettabile, l’abbandono?
«Oscilla tra il senso di colpa della vittima che si prende tutte le responsabilità e la voce di Gabriele che le propone un’interpretazione dei fatti opposta alla sua. Forse Gabriele è come l’armadillo per Zerocalcare: dice quello che Galla non osa pensare».
Anche tu, come Galla, hai chiuso una relazione importante negli ultimi anni. Quanto c’è di autobiografico in questo libro?
«Che importanza ha?»
Gabriele Münter arriva dall’inizio del Novecento ma sembra la più moderna.
«Nell’iperuranio dove sta Münter è diventata una femminista radicale, guascona e scorretta. Le faccio dire che come l’aborto è di pertinenza femminile, dovrebbe esserlo anche il divorzio. Non so se una femminista ne penserebbe bene, non mi sono posta il problema. Tutto quello che ha a che fare con la narrazione mi sembra sfugga alle regole del corretto/scorretto, della tematizzazione, del “cosa volevi dire”. Tutte cose con le quali non si fa racconto, letteratura».
Da punto di vista della coscienza femminista è cambiato qualcosa in te negli ultimi anni? Questo libro sembra parlare anche un po’ di questo.
«Quando andavo a scuola, al liceo, c’erano le occupazioni, la politica, i temi del femminismo li ho frequentati da ragazza. Tanto che posso aver dato per scontate un sacco di cose. Ad esempio una volta pensavo che le quote rosa fossero quasi imbarazzanti. Oggi ho cambiato idea: le regole che impongono dei cambiamenti servono a cambiare davvero».
Hai mai subito il potere maschile?
«Sarà capitato, per mancanza di maturità e lucidità, ma io come Galla me ne prendo ogni colpa. Ti saprò dire meglio tra dieci anni di analisi».
Un altro protagonista del libro è il carcere, coi suoi abitanti. Fai volontariato da molto tempo a San Vittore e nel libro si avverte la grande confidenza con quel luogo.
«Ti dirò Jonathan che il termine “volontariato” non mi piace».
Perché?
«Sa di oratorio, con tutto il rispetto per gli oratori, che ho frequentato, e per i volontari, che vorrei chiamare in un altro modo. Bazzico le carceri da una ventina d’anni e mi ci sento a mio agio, ma non perché penso di fare del bene, il bene lo hanno sempre fatto loro a me».
Cosa ti attrae del carcere?
«Oltrepassi un cancello, anzi sette, ed entri nella realtà di ciò che conta: la libertà, l’amore, la salute, la dignità. E poi in carcere tu che vieni da fuori ti senti fortunatissimo: tre quarti delle persone che ci trovi vengono da famiglie e situazioni in cui saremmo potuti nascere anche noi».
Qual è la scena più bella che hai visto lì?
«L’ho raccontata in Santa degli impossibili: un gruppo di galeotti del penale, gente con condanne lunghissime, che a Natale cantava a squarciagola “Io, vagabondo che son io, vagabondo che non sono altro”».
La più dolorosa?
«Nel carcere femminile: i bambini dietro le sbarre non ci dovrebbero stare».
In te è come se un forte attaccamento al passato, alle origini, convivesse con una forte spinta verso il nuovo, il futuro. Come se, proprio per il peso del passato, ci fosse il bisogno di aprirsi a tutte le differenze possibili. Penso anche alle storie che hai raccontato come giornalista, daTempi moderni in poi. Ti ci ritrovi?
«Ho avuto genitori molto anziani e li ho persi presto. Persone spontanee e affettuose ma proprio di un’altra epoca. Mia madre era malata di ansia ossessiva, l’ho amata moltissimo ma mi ha condizionato la vita. Forse anche per via delle sue proibizioni sono cresciuta curiosissima del mondo e di tutte le differenze».
Nei tuoi libri sembra in azione un piano trasversale che unisce persone, cose, animali, luoghi, colori. Ho pensato a un verso di Williams: “Attraverso la metafora riconciliare le persone e le pietre”. Come un’anima frammentata del mondo, diffusa. Da dove arriva questo sguardo?
«Mio nonno faceva il veterinario e abitava in campagna, mio padre la guardia forestale e poi il rappresentante di mangimi per polli e conigli: da piccola scendevo in garage di nascosto per frugare nelle sue scatole piene di pulcini. Nel giardino dei nonni teneva le capre, le galline, un maiale. A Ferrara stavamo in un piccolo appartamento e avevamo solo un gatto — mio fratello Micione — un pesce e una tartaruga, ma eravamo legatissimi alla natura e agli animali».
Un ricordo?
«Ogni sabato andavamo a Castel San Pietro, dai nonni, attraversando quarantasette chilometri di pianura che conoscevo metro per metro a memoria. Osservando la terra rossa dei campi e i filari verdi e grigi dei pioppi, tre o quattro volte sono caduta in estasi. La natura e gli animali mi emozionano ancora molto, anche se vivo da trentasei anni a Milano. Sono tra le cose che mi fanno stare meglio».
Il libro più bello che hai letto quest’anno?
«Quello che ho letto con più gusto è stato Una vita come tante di Yanagihara. L’ultimo che ho divorato con altrettanta ferocia è stato La città dei vivi di Lagioia»
Ti tocca: pistola alla tempia. Puoi viaggiare nel tempo e passare una giornata con Gabriele Münter o con Rosa Luxemburg, altra figura che compare nel romanzo e che so ami.
«Che cattiveria da parte tua! Per forza con Gabriele, se no torna dall’iperuranio per tormentarmi. Entrambe dovevano avere un carattere infernale ma erano straordinarie. Rosa Luxemburg poi era un genio. L’anno scorso, nel centenario della sua morte, sono andata a Berlino a vedere il punto dove hanno ripescato il suo cadavere dal canale dov’era stata gettata, e la sua tomba, al Memoriale dei Socialisti».
Com’è stato?
«Mi sono dispiaciuta nel vedere che non ci hanno inciso zvi-zvi come chiedeva lei dal carcere: “Sulla mia tomba non si dovranno leggere che due sillabe: zvi-zvi. È infatti il richiamo della cinciallegra. È il primo leggero trasalimento della primavera imminente; nonostante la neve, il gelo e la solitudine noi - le cinciallegre ed io - crediamo all’arrivo della primavera”».