Sette, 20 novembre 2020
Intervista a John Grisham
«Donald Trump resterà nella storia come una grande tragedia americana. Ha riempito di odio tanta gente che ha pensato di trovare in lui il suo campione contro le frustrazioni di una vita difficile. E ha fatto riemergere i peggiori istinti: come quelli che avevo visto nella mia infanzia in Mississippi. Nel Sud nel quale sono cresciuto, ancora negli Anni 60 il razzismo, la segregazione erano la regola. Avvenivano perfino linciaggi di neri. L’ultimo è del 1959: avevo quattro anni. Uscire da quel clima, entrare nell’era dei diritti civili e della società multietnica, è stato un cammino faticoso, ma l’America ha fatto grandi progressi. Quel mondo, quegli istinti orrendi credevo fossero definitivamente sepolti. Invece Trump li ha riportati in vita». John Grisham, un nome che è diventato sinonimo di legal thriller, è uno degli scrittori americani di maggior successo: 36 romanzi principali, quasi 400 milioni di copie vendute, una decina di libri che sono diventati film o serial televisivi. I personaggi che ha creato sono stati interpretati da grandi stelle di Hollywood, da Tom Cruise a Julia Roberts, da Matthew McConaughey a Matt Damon, passando per George Clooney, Sandra Bullock e Dustin Hoffman.
Oggi è un patrizio, un elegante e ricchissimo signore del Sud che vive in Virginia e viaggia sul suo jet privato, ma è sempre molto impegnato in politica col Partito democratico e non dimentica le sue origini modeste: l’infanzia in una piantagione di cotone dell’Arkansas e poi un inizio di carriera come avvocato e anche come politico in un Sud ancor più profondo: in Mississippi. È lì che costruì il suo primo romanzo con un protagonista, Jack Brigance, che, come lui, era un avvocato spiantato, abituato a difendere povera gente non in grado di pagare le parcelle, sempre alla ricerca di un grande caso giudiziario da portare in tribunale. All’inizio A Time to Kill ( Il momento di uccidere nella versione italiana) fu un flop. Poi, quando il secondo romanzo, Il socio, divenne un successo cinematografico planetario, anche l’opera prima esplose in libreria e sugli schermi. Jack Brigance, allora interpretato da McConaughey, ora torna per la terza volta nei romanzi di Grisham con Il tempo della clemenza (Mondadori). In questa lunga intervista in videoconferenza con 7, Grisham si racconta come scrittore, ma parla anche delle sue passioni politiche, dell’evoluzione del suo Sud e mi chiede, curioso, dei viaggi che ho fatto in South Carolina e Georgia durante la campagna elettorale.
Il suo Sud, alla fine, è rimasto compatto con Trump.
«È deprimente vedere come Trump l’ha sospinto di nuovo verso il suo passato più cupo. Come ha convinto tanti che essere razzisti non è in contrasto con essere gente perbene. Ed è angoscioso non poter più discutere con gli altri. Fino a ieri potevi dibattere con chiunque, potevi argomentare: convincevi o ti facevi convincere. Non è più possibile. Non si può più parlare di politica e di Trump, nemmeno tra amici: è guerra».
Lei non scrive di politica. I suoi sono racconti d’azione: crimini indagini, processi. Ma al centro della narrazione c’è spesso un grande tema sociale o economico: il razzismo, i senzatetto, gli abusi delle industrie farmaceutiche, del tabacco o del carbone.
«Vero, non scrivo mai in termini politici: la gente vuole intrattenimento, storie, non prediche. Cerco di farla riflettere sui temi sociali immergendo i miei personaggi in certe realtà. Stavolta non c’è un vero filo conduttore, ma torno sulle gravi distorsioni della giustizia penale americana, un sistema che ha urgente bisogno di riforme. Entro nella questione da un’angolatura particolare: come tratti un ragazzino 16enne che commette un omicidio? È un minorenne, ha agito in modo impulsivo pensando di proteggere o vendicare la madre, ma il danno è uguale a quello che potrebbe essere fatto da un 40enne. Esploro tutte le implicazioni, i diversi punti di vista e non sono sicuro di essere arrivato a una conclusione che convinca in primo luogo me stesso. Forse dovrò scrivere un altro libro...».
In tutte le pagine incombe lo spettro della pena di morte. Anche per un minorenne.
«Esatto. Ho ambientato il libro nel 1990 perché trent’anni fa seguivo ancora casi giudiziari come avvocato, e anche perché allora la pena di morte era molto diffusa soprattutto al Sud, compresa l’esecuzione di minorenni. Oggi continuano a prevederla 35 Stati, ma quelli attivi sono pochissimi: la California ha 600 condannati a morte ma negli ultimi vent’anni le esecuzioni sono state solo due. A parte Alabama, Texas e Oklahoma, la pena di morte sta morendo negli Stati Uniti. Vanno cambiate le leggi, ma la politica non riesce a costruire il consenso per una riforma penale».
Per Jack Brigance, l’eroe del suo libro, la difficoltà di salvare il giovane Drew Gamble è legata soprattutto allo stato d’animo della gente di Clanton, la cittadina del Mississippi nella quale lei ambienta il racconto. Considerano i poliziotti intoccabili e questo rende la vita difficile non solo al difensore, ma anche ai giudici e ai procuratori dell’accusa che, essendo eletti, devono tener conto degli umori della piazza. Un’altra sua denuncia?
«Per i magistrati sì. In molti Stati giudici e sceriffi sono eletti dal popolo. Quindi devono fare campagna elettorale come i politici. Devono raccogliere fondi, fare promesse. Non è raro che un giudice accetti soldi da corporation che, poi, sarà chiamato a giudicare in corte. E, quando succede, spesso non si ricusa: è un conflitto d’interessi terribile. Non è ovunque così: a New York o in Virginia, dove vivo, i giudici non sono eletti ma vengono scelti secondo criteri professionali: è molto meglio. Più che democrazia, l’elezione di un giudice rischia di essere un cortocircuito della democrazia. Il perché cerco di spiegarlo col mio racconto: quando c’è un crimine sensazionale, in una cittadina come Clanton la gente vuole condanne severe e anche rapide. Così il giudice è spinto a usare la mano pesante e tende ad andare di corsa anche quando sarebbe necessario rallentare e approfondire: è così che nascono migliaia di errori giudiziari del sistema penale Usa».
Migliaia di innocenti in carcere o, addirittura, nel braccio della morte. Il suo principale impegno sociale è proprio su questo fronte.
«Sono da più di 12 anni nell’ Innocence Project: studiamo i casi controversi, cerchiamo di individuare gli errori giudiziari e anche di arrivare alla scarcerazione di chi è ingiustamente detenuto, cosa tutt’altro che facile nel sistema americano. Solo grazie ai test del Dna siamo riusciti a scagionare 370 condannati, molti a morte. Gente che ha già fatto 15 o 20 anni di galera per i crimini di altri: storie che spezzano il cuore».
Torniamo alla sua crime story. E la polizia?
«Lì il discorso è diverso. Ne Il tempo della clemenza descrivo come la gente di quella provincia vede gli agenti: angeli custodi da sostenere sempre e comunque e guai a chi li tocca. È un tema attuale, certo, ma il mio caso è molto diverso da quelli di George Floyd, Breonna Taylor e gli altri neri uccisi da eccessi di violenza della polizia. Nelle mie pagine non ci sono abusi dei poliziotti. Stuart Kofer, la vittima, è un agente sempre impeccabile in servizio. Ma ha una doppia personalità: a casa, ubriaco, diventa estremamente brutale. Brigance è odiato dalle forze dell’ordine, come, del resto, da gran parte della città, perché difende il giovane assassino, ma i poliziotti con lui si comportano in modo corretto. Stavolta, poi, non c’è razzismo perché tutti i protagonisti sono bianchi. I conflitti razziali le ingiustizie croniche nei confronti dei neri trattati diversamente dai bianchi dalla polizia in strada, nei tribunali e anche nelle carceri, li ho raccontati in altri romanzi».
Ci tornerà su, visto come la questione dei diritti civili è riemersa in questi mesi?
«Forse. È un movimento importante, che non si placherà e che ha avuto il merito di portare all’attenzione degli americani una questione, quella della riforma penale, che, in genere, non è in cima alle preoccupazioni di chi non ha problemi con la legge, mentre deve vedersela tutti i giorni con le ristrettezze economiche e la minaccia della pandemia. Eppure è un nodo centrale per la società. Nel 2016 ci fu un momento in cui fummo vicini a un accordo bipartisan: la sinistra era animata dalla volontà di correggere norme troppo severe, che possono comprimere i diritti umani; la destra si era resa conto dell’insostenibilità, anche per i suoi enormi costi, di un sistema che mette dietro le sbarre due milioni e mezzo di americani. Molti dei quali condannati per reati non violenti, spesso di droga. Poi fu eletto Trump e al ministero della Giustizia arrivò Jeff Sessions, un conservatore dell’Alabama per il quale la crisi si risolve non riducendo il sovraffollamento delle carceri ma sbattendo ancora più gente in galera: fine delle speranze di riforma. È un’altra grave responsabilità di questo presidente».
Non tutte sue colpe: nei dibattiti preelettorali, l’attacco più efficace di Trump nei confronti di Biden ha riguardato il Violent Crime Control, la legge del 1994 firmata dall’allora presidente Bill Clinton ma in gran parte scritta proprio da Biden, allora alla guida della Commissione Giustizia del Senato, che introdusse le pene severissime anche per reati minori che hanno portato in prigione milioni di americani, in gran parte neri.
«Biden sbagliò e credo che lo abbia ampiamente ammesso. Accade, quando la politica non riesce a capire quali saranno le conseguenze di lungo termine delle sue decisioni. Critico Biden ma non lo condanno perché io ho fatto un errore simile. Trent’anni fa, quando ero deputato al Parlamento del Mississippi, passò un provvedimento in base al quale chi veniva processato più volte, anche per reati lievi, alla terza condanna riceveva una pena pesantissima: decenni di detenzione, anche l’ergastolo. Nel clima di allora mi sembrò ragionevole. Invece avevo torto. E per quei nostri errori di trent’anni fa c’è gente in carcere ancora oggi».
Perché entrò in politica? E perché lasciò l’impegno diretto dopo una sola legislatura?
«Perché deluso, ma anche perché non sufficientemente convinto. Erano gli anni Ottanta e io ero un avvocato idealista e squattrinato, come Jack Brigance. Mi candidai, fui eletto e presi quello nella legislatura del Mississippi come un impegno part time. Poi mi accorsi che assorbiva molto più tempo del previsto, che varavamo leggi farraginose che non cambiavano il mondo come speravo di fare e anche che la constituency che mi aveva eletto reclamava favori a fronte del voto dato. Non ero preparato a queste incombenze. Mollai tutto. Intanto cominciava la mia carriera di scrittore».
Ma le è rimasta la passione per la politica. Amico dei Clinton, aiutò Hillary nelle sue campagne. Mentre a Barack Obama non ha mai risparmiato critiche.
«Non sono mai stato un fan di Obama, è vero. Mi piaceva come persona, ma lo trovavo inadeguato come preparazione: senatore per 15 minuti e poi sparato alla Casa Bianca. Ha fatto bene nei primi due anni, ma poi ha commesso gravi errori. Ad esempio concentrandosi troppo sulla sanità e trascurando l’economia. Così ha perso subito il Congresso. È anche vero che ero vicino a Hillary. Lei era molto più qualificata e, senza Obama, sarebbe sicuramente arrivata alla Casa Bianca. Ho molto criticato Barack ma oggi lo rivaluto: mi sembra un eroe. Bè, paragonato a Trump anche George Bush, un presidente terribile, diventa un eroe. Vale anche per Biden, oggi sono un suo fan: non vedo l’ora che inizi il suo mandato».
La sua produzione letteraria è enorme, quasi due libri l’anno, spesso con descrizioni minuziose. Come si organizza? Ci sono autori che hanno squadre di assistenti. A volte anche la scrittura diventa un lavoro collettivo.
«Io faccio tutto da solo, non voglio che altri mettano le mani nel mio lavoro. Ogni anno comincio un romanzo il 1° gennaio. Scrivo per cinque ore al giorno, cinque giorni a settimana. Mille parole, duemila in una buona giornata. Finisco sempre in sei mesi. Poi ci sono sei settimane di pesante lavoro di editing. Ad agosto è tutto pronto: il romanzo va in libreria a fine ottobre, in tempo per il mercato natalizio. E io, intanto, ho tempo per scrivere un racconto più breve. Non ho uno staff, un team di ricerca, nemmeno una segretaria. Quando ho bisogno d’aiuto mi appoggio alla squadra del mio editore, Doubleday: lavoriamo insieme da 25 anni e sanno sempre come tirarmi fuori dai guai. A volte, se devo fare un’indagine legale più complessa, assumo uno studente di legge, ma, in genere, amo fare le ricerche da solo. Sono stato decine di volte nei penitenziari e nelle aule giudiziarie e sei volte nel braccio della morte. È lì, incontrando un condannato e parlando con un sacerdote, che mi sono convertito: prima ero anch’io per la pena capitale».
Ho letto che sua moglie è un editor severo. Che è stata lei a consigliarla di non descrivere mai scene di sesso.
«Sì, lei legge tutto ed è sempre molto penetrante nei giudizi. Una volta scrissi una scena di sesso che a me sembrava molto erotica, bollente. Lei lesse e scoppiò a ridere: la trovava goffa. Mi disse di lasciar perdere. Non ci ho più riprovato. Ma, tornando alle ricerche, c’è anche un aspetto più casuale, divertente, nel farle da solo. Le cito un caso che riguarda proprio l’Italia. Una quindicina d’anni fa avevo in mente una storia di spionaggio, The Broker, da ambientare in Italia ma non in un luogo specifico. Vengo spesso nel vostro Paese che amo molto. Volevo scoprire un posto nuovo. Lanciai una freccetta sulla mappa: finì su Bologna. Andai, non c’ero mai stato. Mi trovai benissimo ma, soprattutto, scoprii che lì c’era una magnifica squadra di football — non il vostro, quello americano — allenata da coach statunitensi. Fu l’ispirazione per Playing for Pizza, un racconto che scrissi l’anno successivo su un giocatore non più accettato dalla Nfl, la lega americana, che va a giocare a Parma».