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 2020  novembre 20 Venerdì calendario

Parla la vedova di John Belushi

A quarant’anni dall’uscita di The Blues Brothers il ricordo di John Belushi è più vivo che mai. L’attore, morto di overdose nel 1982 a 33 anni, è protagonista della "biografia definitiva", di un documentario, di un biopic, di un caffè e di prodotti a base di Cannabis che portano il nome suo e dei fratelli blues. Al centro dei progetti c’è la moglie Judith Belushi Pisano, con cui ha condiviso la vita.
L’abbiamo incontrata su Zoom in occasione dell’uscita, il 26 novembre con Sagoma Editore, di John Belushi — La biografia definitiva , 536 pagine.
Cosa scopriranno vecchi e nuovi ammiratori?
«Troveranno l’uomo dietro l’attore, raccontato da chi lo conosceva davvero. John seguiva il modello Brando: le persone non hanno bisogno di sapere chi è davvero un attore. Se qualcuno fa alcune domande personali, lo spegni. Però la confusione intorno a questa morte — la droga, la donna misteriosa, il processo — ha oscurato tutto il resto».
Perché era così popolare?
«Era dispettoso e irriverente per natura. Poteva starsene tranquillo e d’improvviso esplodere. Era come un cartone animato, talmente fisico da poter trascendere il linguaggio, bastavano le espressioni facciali. Era simbolo della working class, molti dicevano "somiglia al mio amico del college"».
"The Blues Brothers" è stata una missione per lui.
«Sì, ne era orgoglioso. Lui e Dan (Aykroyd ndr ) hanno creato la band e dato vita al film. Amavano la musica, erano molto umili rispetto alle loro capacità blues, si sono sentiti onorati di aver messo insieme una band che è diventata un movimento. Tanti musicisti mi hanno detto che grazie al film erano tornati a lavorare».
Era il suo film preferito?
«Forse sì. Ma amava anche Animal House ed era affezionato a Chiamami aquila , in cui si era sentito più a disagio perché esponeva un lato di sé che non era sicuro avrebbe funzionato in quel momento: dopo Animal House e Blues Brothers la gente si aspettava un altro selvaggio e invece trovava uno scrittore simile al vero John, appassionato di storia e politica, divoratore di giornali».
Era anche attivo in politica.
«Sì, aveva manifestato contro la guerra in Vietnam, se fosse stato arruolato avrebbe lasciato il paese. Aveva 19 anni. Gli chiesi "Ma non sei un patriota?". E lui "sì, perciò non sostengo una guerra immorale».
Avete vissuto la vita insieme.
«Avevo 15 anni quando abbiamo iniziato a uscire insieme e 31 quando è morto. Ha sempre avuto talento, si faceva notare già nelle esibizione al liceo, era il capitano della squadra di football. È sempre stato un leader. Sicuro nelle cose che sapeva fare, sport e spettacolo, meno nel quotidiano. Mi diceva: "Tanto sono a mio agio sul palco quanto sono stonato in un negozio di alimentari: mi sento perso, voglio uscire…". C’erano degli aspetti che gli piacevano della fama: la reazione del pubblico, il successo televisivo. Poi però lo riconoscevano ovunque, anche se si travestiva con i capelli e gli occhiali. Non era un divo altero di Hollywood, la gente si prendeva confidenza. È stato così veloce quel periodo che non abbiamo avuto il tempo di mantenere il nostro spirito attaccato e ci siamo persi nel caos della celebrità».
La scorsa estate è morta Cathy Smith (che iniettò la dose fatale a Belushi, ndr) che con Bob Woodward è una persona che l’ha fatta soffrire.
«Ho compiuto un percorso spirituale che mi ha portato al perdono. È stato più facile con Cathy, era una tossicodipendente: è come se due ubriachi sono in macchina, uno guida, c’è un incidente e il passeggero muore. Al contrario dei miei suoceri, al processo ho detto che aveva bisogno di terapie, non di carcere. Quanto a Woodward, veniamo dalla stessa città, perciò lo cercai. Mi sono sentita ingannata. Leggere la sua biografia è stato come guardare una commedia su John interpretata da un attore pessimo che non coglieva l’anima».
È vero che Belushi fu contattato per "C’era una volta in America" di Sergio Leone?
«So solo che c’è stato un periodo di incontri, conversazioni. Non sapremo mai come sarebbe finita. Amava il cinema italiano, dagli spaghetti western a Fellini. Lavorava in tv fino a tardi, spendeva la notte a guardare film, la mattina dopo ne faceva parodie con gli amici».
Il doc "Belushi" si vedrà in Usa tra qualche giorno.
«È un progetto sincero. Avrei valorizzato di più gli aspetti comici, ma la parte politica è interessante, la posizione di Nancy Reagan sulla droga fatta di no. Gli amici mi dicono di aver pianto, ma di essere grati di aver rivisto John nel film».
A che punto è il biopic? E gli altri progetti?
«Sono molto legata a mio cognato Jim e agli altri fratelli. Jim ha una fattoria in Oregon e ha iniziato a coltivare cannabis, crediamo nelle sue proprietà curative e abbiamo lanciato con successo i prodotti col marchio Blues Brothers . Con lo stesso nome stiamo portando sul mercato un ottimo caffè. La serie animata per ora è ferma, ma siamo in contatto con una casa di anime giapponese. Per il biopic c’è il regista, David Frankel e il copione. Cerchiamo un volto nuovo.
Gli attori che mi ricordano John?
«Joaquin Phoenix e Jack Black. Poi c’è il figlio di Jimmy, Robert. Con l’altro cognato, Billy, l’abbiamo visto recitare e alla fine abbiamo detto "nella scena sul divano era identico a John". È stata un’emozione».