la Repubblica, 20 novembre 2020
Quelle norme sulle tasse appaltate ai privati
Un pezzo della riforma fiscale appaltata ai privati. “Possibile?” si domanderanno increduli i lettori. Eppure leggendo con attenzione il comma 2 dell’articolo 113 della bozza della manovra di bilancio il sospetto viene: «La società di cui al comma 1, nell’ambito delle attività di supporto all’attuazione della riforma complessiva del sistema fiscale, fornisce assistenza alle strutture competenti del ministero dell’Economia e delle Finanze per lo svolgimento delle attività finalizzate alla redazione di un codice generale delle norme tributarie, anche attraverso il reclutamento di personale esterno ad elevata specializzazione mediante contratti di lavoro a tempo determinato». La società di cui al comma 1 si chiama Studiare sviluppo ed è di proprietà del Tesoro. E per capire che cosa sta succedendo bisogna fare un passo indietro di quasi tre mesi. Tornando al 25 agosto scorso.
Quel giorno esce su Repubblica una intervista al direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Ruffini, che non ha peli sulla lingua. Dice che l’epidemia offre un’occasione che non si può perdere, quella di realizzare finalmente la grande riforma del fisco. Fa capire che la sua non è un’uscita estemporanea tanto per regalare un titolo al giornale, ma che parla a ragion veduta: il governo sarebbe seriamente intenzionato a lavorarci. Per prima cosa, però, spiega che bisogna mettere ordine nell’incredibile guazzabuglio di norme: «Il nostro non è un sistema fiscale. È una giungla impossibile da comprendere per chiunque, del tutto incontrollabile. E questo perché nel corso degli anni le leggi finanziarie l’hanno letteralmente terremotato, creando frammentazioni assurde. Pensi che non si conosce neppure con esattezza il numero delle leggi in materia fiscale attualmente in vigore: dovrebbero essere circa ottocento». Per questo sostiene che sia necessario fare prima di tutto cinque testi unici, per sapere cosa c’è esattamente, per poi sfrondare e riformare. Tutto logico.
E a dare un’occhiata superficiale a quel comma sembra proprio che per una volta tanto qualcuno nel governo abbia ascoltato la logica. Prima di tutto c’è scritto che si farà la riforma fiscale, ed è già una notizia. Poi si precisa che per farla serve un codice generale delle norme tributarie. I famosi testi unici dei quali parlava Ruffini.
Il problema però sorge quando lo stesso comma dice che non se ne deve occupare l’amministrazione, con il suo esercito di supertecnici espertissimi e plotoni di capi degli uffici legislativi profumatamente retribuiti dallo Stato, magistrati e consiglieri di Stato che passano il tempo a scrivere testi normativi. Sarà invece compito di consulenti esterni pagati a parte per incarico di invece una società pubblica, la cui esistenza è già di per sé misteriosa. Perché mai, infatti, il ministero dell’Economia dovrebbe possedere una società di capitali che dovrebbe fare il mestiere di consulente delle amministrazioni centrali e regionali per cosucce come i fondi europei? Tutto questo, per giunta con appena 13 (tredici) dipendenti? Dettaglio che da solo rende evidente la ragione per cui i testi unici non potrà mai farli Studiare sviluppo, dove a maggio è stato nominato amministratore unico l’avvocato Alberto Gambescia, già coordinatore della Fondazione Mezzogiorno Europa fondata a suo tempo da Giorgio Napolitano e presieduta dall’ex parlamentare Umberto Ranieri, esponente del Pd. Ma giocoforza gli esperti privati assunti “a tempo determinato” da quella società.
Dopo aver contribuito al guaio, se è vero come tempo fa calcolò la Confartigianato che in Italia viene sfornata una norma fiscale (legge, decreto, circolare o regolamento che sia) alla settimana, la pubblica amministrazione alza dunque le mani. Si arrende davanti alle 800 leggi che ha fatto e non conosce neppure, passando la mano ai commercialisti.
Chi padroneggia la tormentata storia del fisco italiano ricorderà un precedente. Per fare gli studi di settore il ministero delle Finanze sentì nel 1999 il bisogno di costituire l’ennesima società per azioni pubblica, con una piccola quota della Banca d’Italia. Si chiamava SoSe, ovvero Società per gli studi di Settore, ed è stata affidata per una quindicina d’anni a un esperto tributarista privato: Giampietro Brunello.
Oggi la creatività ministeriale gli ha cambiato nome: SoSE, ossia Soluzioni per il Sistema Economico. Ed è ancora lì, viva e vegeta.