l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama ricorda l’impressione che gli fece il modo elegante con cui George W. Bush e la sua famiglia svolsero questo compito. «Mi ripromisi — scrive — di trattare il mio successore allo stesso modo al momentoopportuno». Il suo successore è stato Donald Trump.
Durante la conversazione svoltasi domenica scorsa a Washington, gli ho chiesto se lo ha fatto davvero, con eleganza. «L’ho fatto».
«È stato difficile, ma ce l’ho fatta.
Chiamai Donald Trump quella sera stessa, a tarda notte, per congratularmi con lui, anche se la sua vittoria su Hillary Clinton aveva all’incirca lo stesso margine della vittoria di Joe Biden su di lui. Feci quella telefonata, non abbiamo rimandato per settimane fingendo che non fosse successo. Qualche giorno dopo lo invitai alla Casa Bianca con sua moglie, Melania. Feci in modo che tutti i miei dipartimenti e i miei collaboratori preparassero i manuali per la transizione. A quanto pare, non sempre sono stati letti.
Uno di questi riguardava come affrontare l’eventualità di una pandemia. Sembra che non abbiano seguito le linee guida indicate.
Cercai di mettere in pratica la lezione imparata da George W. Bush durante il mio insediamento. Il trasferimento pacifico del potere tra i partiti fa parte di ciò che fa funzionare una democrazia».
Il che ci porta a ciò che sta accadendo ora. Non solo il presidente Trump non ha ancora invitato il presidente eletto Biden, ma non ha nemmeno ammesso la sua vittoria. Ha mai immaginato che questo potesse accadere nel suo Paese?
«Quattro anni fa, non me lo sarei mai immaginato. Mi dispiace dire che al termine della presidenza di Donald Trump questo comportamento non mi sorprende. Michelle ed io parliamo molto. Lei è più pessimista sulla natura umana. Cerco di ricordarle che quando venni al mondo, in gran parte dell’America, in un albergo come questo, non c’erano ospiti afroamericani. Se io e lei ci fossimo incontrati qui, era perché portavo le sue valigie. E ora siamo seduti qui, e io sono l’ex presidente degli Stati Uniti. Può essere frustrante e scoraggiante, ma 59 anni nel corso della storia dell’umanità non sono che un istante».
Qual è stato il suo stato d’animo in questi ultimi quattro anni?
«Non c’è dubbio che si sono provocati dei danni significativi tanto negli Stati Uniti come in tutto il mondo. Se ignori la scienza, se ignori i fatti, la pandemia sarà più grave. Se incoraggi, o tolleri, i comportamenti razzisti, chi ha questi impulsi si farà più ardito. Se abbracci i dittatori sulla scena mondiale, l’impegno per la democrazia si indebolisce. Negli ultimi quattro anni, ci sono stati dei momenti in cui mi sono sentito frustrato. Anche quando entrai in carica, nel 2008-2009, gli Stati Uniti stavano attraversando una crisi. Ci fu una crisi finanziaria globale. Ci fu la guerra in Iraq che divise il Paese e allontanò molti dei nostri alleati. E per otto anni lavorammo duramente per ristabilire la posizione dell’America nel mondo, per ricostruire l’economia. Quando lasciai il mio incarico, l’America era in una posizione forte, e vedere un po’ di quel progresso dissipato inutilmente, è... Sì, evidentemente c’è un senso di frustrazione a volte»
«Queste elezioni hanno dimostrato che la società americana è profondamente divisa. Alcune di queste divisioni c’erano già prima di Donald Trump e continueranno ad esserci dopo di lui. Ma quello che è certo è che lui ha accelerato quelle divisioni. Ha alimentato le fiamme della divisione. Joe Biden, invece, è una persona che, per istinto e per carattere, unifica. Una cosa che ho imparato come presidente è che ciò che il presidente dice, il modo in cui lo dice, è molto importante. Il presidente degli Stati Uniti non può risolvere tutti i problemi, anche se spesso la gente si aspetta che sia in grado di farlo. Ma può incoraggiare un certo modo di interagire, un modo civile, un senso di comprensione degli altri. Penso che possa dare un tono a livello internazionale per quanto riguarda il modo in cui interagiamo con i nostri alleati, il modo in cui ci avviciniamo alla diplomazia. E penso che vedrete in Joe Biden un ritorno ad alcune delle tradizioni che ho cercato di mantenere quando ero presidente».
Nel suo libro, scrive che i cittadini seppero capire che cosa era importante per lei, "una voce che insisteva sul fatto che, nonostante tutte le nostre differenze, rimanessimo legati come un unico popolo, e che avremmo trovato insieme la via per un futuro migliore". Oggi, ha ancora una visione così ottimistica?
«Sì. Il mio è sempre stato un cauto ottimismo, nel senso che la storia non va solo avanti. Si muove all’indietro. Si muove di lato. Non c’è dubbio che l’umanità abbia fatto progressi negli ultimi 2.000 anni. È meno violenta, è più istruita, è più sana, eppure abbiamo ancora la guerra e la crudeltà. Ci sono ancora posti dove le persone non hanno diritti. Lo vediamo ogni giorno. E lo stesso vale per l’America. L’America è un posto migliore di duecento anni fa. Ma c’è ancora il razzismo. C’è ancora disuguaglianza. Non possiamo dare per scontato che la democrazia funzionerà sempre perché la democrazia è la forma di governo più difficile, perché chiede a ciascuno di noi come cittadini una vigilanza costante, di chiedere conto ai nostri leader delle loro responsabilità, e di analizzare criticamente ciò che viene detto, ciò che è vero e ciò che non lo è. E questo oggi è più difficile che mai»
Quando si è reso conto di questi rischi, e cosa si sarebbe potuto fare diversamente?
«Negli Stati Uniti c’è sempre stata una guerra narrativa, uno scontro di idee tra i nostri documenti fondativi, che dichiarano che tutti gli uomini sono creati uguali e credono nello stato di diritto e nella libertà di parola. E poi c’è sempre stato chi ha detto di no, vogliamo preservare privilegi e status per un certo gruppo di americani e non per altri.
Ci sono fatti alternativi e una realtà alternativa a cui assistiamo anche adesso, quando Donald Trump dichiara che "non ho ancora perso le elezioni", o "ci sono stati brogli e voti illegali", anche se non ci sono prove.
Non è solo un fenomeno americano, ma un fenomeno globale, soprattutto a causa dei social media e di internet. Per questo una delle grandi sfide in tutte le nostre democrazie è: come tornare al punto in cui poter tutti fare riferimento ai fatti?».
©El País/Lena, Leading European Newspaper Alliance