Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2020
L’immateriale domina la Borsa
L’immateriale domina la Borsa. Soprattutto in America. Gli asset intangibili, secondo Brand Finance, valgono il 76% di tutto il valore d’impresa delle società quotate Usa. Cioè: tre quarti dell’enterprise value è costituito da risorse e patrimonio diversi da beni fisici o attività finanziarie, senza alcuna consistenza materiale. Il dato è il più alto dal 2006 e implica il valore di 35.000 miliardi di dollari. Certo: l’evolversi nel tempo degli “intangibles” non è lineare. In alcuni anni ci sono dei bassi, in altri degli alti. Nel 2010, ad esempio, gli asset immateriali pesavano per circa il 64% (10.500 miliardi di dollari). Poi, nel 2015, sono balzati al 73% (28.300 miliardi) per, successivamente, ridiscendere nel 2016. Ciò detto, però, la dinamica di fondo è definita: c’è una progressiva crescita. Un po’ diversa la situazione in Europa. Qui il fenomeno è più contenuto: gli asset immateriali valgono il 51% del valore d’impresa delle realtà quotate (11.600 miliardi di dollari). Un dato che si spiega anche, e soprattutto, con la mancanza nel Vecchio continente di grandi campioni hi-tech e digitali. Al di là dei singoli numeri, è comunque indubbio che il mondo dell’immateriale ha preso piede. Un fenomeno importante di cui, almeno in Italia, si parla poco.
Cosa sono gli asset intangibili
Già, se ne parla poco. Ma di cosa si tratta in concreto? Un’impresa, per fare business, ha bisogno di beni materiali (fabbriche, macchinari) e, per l’appunto, di risorse intangibili. Quest’ultime in linea di massima possono dividersi in due aree. La prima è riconducibile agli asset che derivano da protezioni legali: dai brevetti alle licenze fino al diritto d’autore e i marchi. Appannaggio della seconda, invece, è l’immateriale in grado di influenzare la performance dell’impresa: dalla capacità innovativa ai processi organizzativi fino al capitale umano e la rete di relazioni con l’esterno. «Sono elementi -spiega Mauro Bini, docente di finanza aziendale alla Bocconi – fondamentali ed essenziali per la vita e lo sviluppo dell’impresa». Realtà che «non sono in contrapposizione con i tangibili. Soprattutto a fronte della sempre maggiore rilevanza dell’economia della conoscenza». Ciò detto, però, diversi esperti sottolineano che la loro pervasività può implicare dei problemi. Un esempio? La quantificazione contabile. «In realtà – riprende Bini – con l’attuale regolamentazione gli intangibili trasferibili o di natura contrattuale, siano essi iscritti a bilancio oppure no, sono caratterizzati da un minore complessità nella valutazione». Maggiori dubbi, invece, si hanno nell’M&A. Nell’operazione straordinaria c’è di fatto sempre una differenza tra il maggiore prezzo pagato per l’acquisizione di una società e il valore contabile della stessa. Ebbene: questa differenza è l’avviamento e va iscritto a bilancio. Sennonché, costituendo la speciale capacità dell’impresa di creare crescita futura, la sua ricomposizione sotto valori numerici è più difficile. «In simili casi – dice sempre Bini – l’alea è maggiore».
I multipli
Ma non è solo questione di bilanci. Gli intangibili sono indubbiamente essenziali e rilevanti. La loro preponderanza deve, però, indurre delle cautele. Tra le altre cose nell’uso dei multipli. «Può pensarsi – afferma Raffaele Oriani docente di finanza alla Luiss – al cosiddetto Return on asset (Roa, ndr)». Questo, molto usato dagli investitori, è costituito dal rapporto tra il reddito netto dell’azienda e i suoi asset totali. «Si tratta di un indicatore che, a fronte del fatto che gli intangibili spesso non sono iscritti a bilancio, ha scarsa valenza segnaletica proprio quando una società ha molti “intangibles”». Il Roa, in questo caso, rischia di essere sovrastimato. Non solo. Anche nell’ipotesi in cui i beni immateriali siano indicati c’è il problema della manipolazione. Vale a dire? «La maggiore difficoltà nella quantificazione dell’intangibile può agevolare, da parte dell’azienda, la sua sopravvalutazione o sottovalutazione». Il tutto a seconda che si voglia avere un Roa più basso o più alto. Quindi, quando una società è contraddistinta da molti asset immateriali, «è meglio affidarsi – conclude Oriani – a indicatori che prescindano dallo stato patrimoniale». Un esempio? I metodi di valutazione dell’impresa che si basano sulla capacità della stessa di generare flussi di cassa.
Tecnologia e realtà economica
Fin qui alcune suggestioni rispetto all’evoluzione dell’intangibile. I dati di Brand Finance, tuttavia, hanno un altro valore segnaletico: indicano il continuo, e profondo, cambiamento del capitalismo moderno. Una crescita dell’immateriale dovuta ad alcune dinamiche di fondo. La prima è il boom di Internet. La Grande Rete globale, che affonda le radici nel secolo scorso ma si struttura con l’arrivo della banda larga a inizio del 2000, è l’autostrada telematica su cui viaggia il capitalismo dell’informazione. Un’economia immateriale che, più di recente, «ha accelerato -ricorda Massimiano Bucchi, professore di Scienza, Tecnologia e Società all’Università di Trento – grazie anche alla crescita esponenziale della potenza computazionale dei calcolatori e all’avvento dei big data». Oltre che, poi, all’arretratezza della regolamentazione «in settori quali quelli dei social media». «Un cambiamento – aggiunge Stefano Bresciani, docente di Innovation management e Digital Transformation dell’Università di Torino – che, proprio grazie alla globalizzazione tecnologica, fa leva su strutturali risparmi di costi e di tempo a favore dell’impresa». È chiaro: si tratta di fenomeni molto complessi. Mega trend rispetto ai quali non vanno mai dimenticati i possibili effetti collaterali. Un esempio? L’esplosione dello smart working a causa dell’attuale pandemia. «La digitalizzazione dell’ufficio – riprende Bresciani- costituisce un tipico aspetto dell’avanzata del capitalismo immateriale. La quale porta con sé l’indubbio benefico di proseguire l’attività nonostante il virus». Ma da un lato, mandando sullo sfondo il posto di lavoro fisico, destruttura l’attività lavorativa in sé; e, dall’altro, «crea ad esempio problemi all’indotto commerciale attorno all’ufficio stesso».
Senza dimenticare, infine, il tema dell’occupazione. Nessuno si stupisce di trovare, ai primi posti delle società più capitalizzate al mondo, i noti giganti tecnologici. Sennonché, come indicano Schlingemann e Shultz nel loro saggio “Has the Stock Market Become Less Representative of the Economy?”, proprio questi big dell’hi-tech non sono al top nella classifica per numero di impiegati. Nel 2019, ad esempio, Apple è la società con la più ampia market cap ma è al 40° posto per livello di occupazione. Certo: diversi esperti sottolineano che l’innovazione hi-tech consentirà la creazione di ulteriori forme di occupazione in altri settori. E tuttavia, da una parte, il porsi il problema è essenziale; e, dall’altra, non bisogna dimenticare che le nuove tecnologie non sostituiscono la forza fisica, bensì sempre di più quella intellettuale. L’intelligenza artificiale è tra noi e di certo non canta la canzoncina di Hall: «Giro, giro tondo…».