Corriere della Sera, 19 novembre 2020
QQAF20 Su "Cento luoghi diversi. Un viaggio in Italia" (Treccani)
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«Unisci i puntini e vedrai apparire…», raccomanderebbe forse «La settimana enigmistica». Ma cosa mai potrebbero unire la spiritata civetta di Toti Scialoja («Una civetta di Civitavecchia / guarda la luna che in mare si specchia. / Di luna piena ce n’entra parecchia / negli occhi tondi di questa civetta») e lo strazio inconsolabile di Salvatore Quasimodo davanti alle macerie di Milano dopo le bombe del ’43? «…non scavate pozzi nei cortili: / i vivi non hanno più sete. / Non toccate i morti, così rossi, così gonfi: / lasciateli nella terra delle loro case: / la città è morta, è morta.». O ancora la foto d’una oscena discarica abusiva della Campania Infelix e l’affresco di Dante Alighieri al tempo in cui l’Arsenale era il più importante stabilimento del mondo? «Quale ne l’arzanà de’ Viniziani / bolle l’inverno la tenace pece / a rimpalmare i legni lor non sani, / ché navicar non ponno – in quella vece / chi fa suo legno novo e chi ristoppa / le coste a quel che più vïaggi fece; / chi ribatte da proda e chi da poppa…».
Eppure, spiegano Franco Marcoaldi e Tomaso Montanari, autori di Cento luoghi di-versi. Un viaggio in Italia edito da Treccani, è vero che «non c’è ordine, tra le pagine: né geografico, né tipologico, né storico». E che «a guidare è la felicità del gioco tra due amici», il poeta e lo storico dell’arte. Ma dal generoso e fertile miscuglio di affreschi e sonetti, fogli volanti («Delitti, arresto e morte di Federigo Bodini detto Gnicche scappato dalle carceri di Arezzo e ucciso dai carabinieri…») e foto di suore sulla metro e versi fulminanti di Luciano Erba («...andavo in montagna / scarponi e paltò / volevo fuggire / l’Italia e Salò»), esce davvero un ritratto dell’Italia: «Le mille differenze delle nostre identità municipali e regionali e la tormentata storia della nostra unità nazionale ci hanno insegnato che “italiani si diventa”: siamo una nazione per via non di sangue, stirpe, fede o “razza”. Ma per via di cultura».
Una ricchezza che consente pure a chi italiano non nacque di poterlo diventare. Come Simone Weil, che dopo aver trascorso ore nella cappella medicea ed essersi imbevuta di immagini, poesie, profumi, vicoli e fiaschetterie antiche («io non visito le città, lascio che entrino dentro di me, per osmosi») scrive: «Firenze è la mia città. Di sicuro ho vissuto una vita precedente tra i suoi uliveti. Quando ho visto i suoi bei ponti sull’Arno, mi sono chiesta che cosa avessi fatto, lontano da lei per così tanto tempo».
C’è di tutto, in questo viaggio nello spazio e nel tempo. Perché sì, certo, stringi stringi l’Italia può essere riassunta nelle tre righe di Wolfgang Goethe («Alla grande pianura della regione padana segue una catena di monti che si eleva dal basso, per chiudere verso sud il continente fra i due mari») ma trabocca di storia, arte e poesia con una tale abbondanza da essere descritta da Angelo Maria Ripellino come una sorta di matrioska: «C’era un paese che conteneva tutti i paesi del mondo, / e nel paese un villaggio che racchiudeva tutti i villaggi del paese, / e nel villaggio una via che riuniva tutte le vie del villaggio, / e in questa via purulenta una casa che comprendeva tutte le case, / e nella casa una povera stanza, e nella stanza un’enorme sedia, / e sulla sedia, sparuto, un minuscolo omino in bombetta, / e questo omino era tutti gli uomini di tutti i paesi, / e questo omino rideva, rideva sino alle lacrime». Emozioni.
Ed ecco l’ospedale, così prossimo e incombente in questi tempi, nelle parole di Boris Pasternak: «Ho preso una dose di sonnifero, / e piango tormentando il fazzoletto. / O Dio, lacrime d’emozione / m’impediscono di vederti. / M’è dolce, alla luce opaca / che cade appena sul letto, / riconoscere me e la mia sorte / come un inestimabile dono. / Morendo in un letto d’ospedale, / sento il calore delle tue mani. / Mi tieni come un tuo prodotto, / e mi riponi come un anello nell’astuccio». E più in là la serenità dell’Appennino di Vincenzo Cardarelli: «Viene dai borghi, qui sotto, in faccende, / un vociar lieto e folto in cui si sente / il giorno che declina / e il riposo imminente. / Vi si mischia il pulsare, il batter secco / ed alto del camion sullo stradone / bianco che varca i monti. / E tutto quanto a sera, / grilli, campane, fonti, / fa concerto e preghiera, / trema nell’aria sgombra…». Ed ecco la magica Trieste vista col pennello da Egon Schiele e con la penna da Umberto Saba. E il randagio di Pier Paolo Pasolini che vaga incerto tra le auto che corrono («Non ha nulla da ridire: accetta tutto. / Non ha dignità da difendere, a causa della sua bontà. / Ecco quindi la mia conclusione; / la rassegnazione non ha niente da invidiare all’eroismo») è accoppiato con la foto di un cane sperduto tra le macerie dell’Aquila.
E ancora l’impatto sconvolgente di Guernica di Picasso esposta nel ’53 nella sala delle Cariatidi devastata dai bombardamenti di Palazzo Reale e la stessa città cantata tanti anni dopo da Lucio Dalla: «Milano a portata di mano / ti fa una domanda in tedesco / e ti risponde in siciliano / poi Milan e Benfica / Milano che fatica». E la doppia arte di Michelangelo scultore (Il prigione Atlante) e poeta: «Se ’l mie rozzo martello i duri sassi / forma d’uman aspetto or questo or quello...». Fino ad associazioni un po’ criptiche tipo quella tra il «mural» in una stradina di Roma con Matteo Salvini che bacia Luigi Di Maio (altri tempi, altri amori) e un sonetto del Quattrocento di Giovanni Pico della Mirandola: «Misera Italia e tutta Europa intorno / che ’l tuo gran padre Papa iace e vende…».
Un’Italia antica piena di decoro. Un’Italia allo sbando. Un’Italia incorreggibile. Un’Italia piena di dignità. Un’Italia cialtrona. Un’Italia commovente. Il cuore del libro è quello: solo chi ama davvero la propria patria può accettare il dolore di criticarla. Di non voltarsi dall’altra parte. Di ritrovare i fili che uniscono secoli di storia. Come il fregio d’una vela gonfiata dalla fortuna che corre lungo tutta la facciata di Santa Maria Novella emblema nel 1470 della grande famiglia fiorentina dei Rucellai e si collega agli albori del Novecento con le Barche amorrate di Dino Campana: «Le vele le vele le vele / Che schioccano e frustano al vento / Che gonfia di vane sequele / Le vele le vele le vele / Che tesson e tesson: lamento / Volubil che l’onda che ammorza / Ne l’onda volubile smorza / Ne l’ultimo schianto crudele / Le vele le vele le vele».