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 2020  novembre 19 Giovedì calendario

Giallo, il colore della colpa

A ogni cittadino di Cori (provincia di Latina) la cui positività al virus sia stata registrata è stato piazzato un bidone giallo davanti alla porta di casa. Dove quel cittadino dovrà raccogliere la sua spazzatura che potrebbe essere infetta e per la quale si dovranno usare delle procedure speciali. Chissà quali. Chissà dove finiranno quelle bucce di banana, quei vasetti di yogurt vuoti, quei tovagliolini unti. Chissà come hanno pensato, a Cori, di far schiantare la positività dell’indifferenziata contro un muro per farle finire la sua corsa. Non lo sappiamo, non è affar nostro. Ci preoccupa invece la privacy. Il bidone giallo fa impressione. Pare lo stigma, il dito puntato, la stella sul cappotto, la lettera scarlatta. La ragione è che siamo riusciti di nuovo, anche in questa misteriosa e apocalittica pandemia, a identificare il malato come un colpevole. Nonostante stavolta non ci sia un gesto, un comportamento tramite il quale il virus si infila nel nostro corpo. Il virus è nell’aria e tutti quanti respiriamo. Quindi tutti siamo soggetti allo stesso rischio di contrarlo, anche se le conseguenze, per età e condizione fisica pregressa, sono diverse. Eppure anche stavolta una parte di noi pensa che chi si ammala ha sbagliato. Ha fatto qualcosa di eccentrico, una passeggiata nella parte scura, il deep web esistenziale. Se ti ammali non sei innocente, la nostra comprensione si ferma sempre un po’ prima della diagnosi finale. Perché la malattia, ogni malattia, è un memento mori. E la normalità, la sobrietà ci sembrano anticorpi migliori della sregolatezza. Persino stavolta, in cui è ormai acclarato che la situazione nella quale il contagio se la spassa è la routine familiare. E quando la malattia è contagiosa, lo stigma è aggravato dal fatto che il malato è anche il nemico. Ci vorrebbe discrezione, certo. I bidoni gialli sono emblema soprattutto della nostra insipienza, si poteva senz’altro fare meglio, con più grazia. Purtroppo però questa malattia non regge il rispetto della privacy. Non nel modo in cui è stata affrontata. Perché funzionino tutte le strategie che abbiamo inventato, dal confinamento al tracciamento, serve la condivisione dei dati, serve sapere chi isolare.
Quando segnaliamo la nostra positività, prima o poi verrà un medico a visitarci a domicilio. E lo farà, poveretto, bardato con l’orrorifico scafandro, i guanti, le sovrascarpe… Non proprio la divisa ideale per passare inosservato. E poi verrano quelli della disinfezione, a spruzzare le scale, l’androne, l’intero condominio sarà sanificato alla luce del sole.
Mi sembra cruciale evitare che, spaventati dalla messa all’indice, si finisca per non segnalare il risultato del tampone. Cosa che vanificherebbe tutti gli sforzi che stiamo facendo per combattere la malattia. Da questa epidemia non si esce uno alla volta, ma tutti insieme. Serve la comunità, perché quel bidone giallo va svuotato, qualcuno deve portare il cibo a chi sta confinato…Serve, soprattutto la razionalità per ricordare sempre che nella casa col bidone giallo non c’è un nemico, ma una persona in quarantena. Facile? Insomma…